Archive for febbraio 2010

Offro Io…

19 febbraio, 2010

L’ennesimo appello per fare offerte questa settimana lo sentiremo al Tempio nella lettura della Torà…

Nel parallelo antico della libera offerta D-o chiede a chi fosse “generoso di cuore” di offrire il necessario per la costruzione del Tabernacolo (il Santuario temporaneo nel deserto, il Mishkàn) e tutto ciò che servirà al suo interno.

Quale potrebbe essere però la rilevanza storica di una struttura la quale esistenza dipende dalla “generosità del cuore” di individui e non, per esempio, di un governo che ne garantisce l’esistenza attraverso delle tasse obbligatorie?

Fortunatamente, per rispondere a questa domanda possiamo farci aiutare da dei precedenti storici. Lasciamo stare le piramidi egizie, quelle dei Maya, ed altre strutture storiche. Non perché non ci piacciono, semplicemente perché il precedente storico l’abbiamo trovato proprio nel contesto di questo Santuario.

Mi spiego: Questo Tabernacolo temporaneo-mobile costruito a priori per la permanenza, breve in termini storici, nel deserto, è servito in realtà per qualche anno in più.

Seguendo la cronologia degli eventi seguiti al ritorno del popolo ebraico in Terra Santa con Giosuè (Yehoshua) ci risulta che il Mishkàn, il Tabernacolo, fu eretto a Ghilgal, in prossimità del fiume Giordano. Qui riposò per 14 anni. Da qui si trasferì a Shilò ove acquisì una struttura più solida: le mura furono di pietra mentre il tetto rimase di telo come era nel deserto. Quanto durò la permanenza del Mishkàn a Shilò?

369 anni.

Totale: 39 anni nel deserto, 14 a Ghilgal, 369 a Shilò = 479 anni.

(Il Mishkàn fu poi a Nov e a Ghiv’òn per 13 e 44 anni rispettivamente, ma senza la presenza dell’Arca Santa).

Abbiamo quindi un Tabernacolo “temporaneo” che esiste per circa cinque secoli come unico punto di “incontro” tra l’umano e il divino.

Il Tabernacolo cessò di esistere quando fu costruito il Santuario fisso a Gerusalemme. Il Santuario costruito da Salomone (Shelomò) era quindici volte più vasto e tre volte più alto del Tabernacolo. La costruzione durò sette anni e impiegò migliaia di persone. Le festività d’inaugurazione furono senza precendenti.

Dopo la morte di Shelomò, il regno si divise in due. Il figlio di Shelomò rimase a Gerusalemme a capo di sole due tribù (Yehudà e Benyamin) mentre Yerov’am fu dichiarato re dalle rimanenti dieci tribù. I rapporti tra i due regni non erano buoni e il confine non rimase aperto. Yerov’am proibì ai suoi sudditi, membri delle dieci tribù, di fare il pellegrinaggio tre volte all’anno a Gerusalemme.

Il risultato fu che una grande parte del popolo ebraico non ebbe nessuno rapporto con quello che avrebbe dovuto essere il centro della vita spirituale del popolo. La situazione rimase così finché il regno delle dieci tribù fu conquistato e esiliato dagli Assiri (o pochi anni prima).

Il grande Tempio di Gerusalemme fu al centro della vita dell’intero popolo per… 29 anni.

A prescindere dei motivi storici che portarono a questa situazione, ci potrebbe essere anche una lezione per noi, oggi. Per il Tabernacolo del deserto era stata chiesta la libera offerta. La risposta era talmente entusiasta che ad un certo punto Moshè dovette chiedere alla gente di non portare ulteriori materiali perché ce n’erano più che a sufficienza. Di contrasto, il Santuario di Shelomò fu frutto di forti imposte e tasse, anche umane nella forma di schiavi/operai.

Secondo voi cos’è la lezione? Commentate qui!

Di rav Shalom Hazan
da un pensiero di Rav Zushe Greenberg

Eventi Purim

19 febbraio, 2010

La Neve e La Zedakà

12 febbraio, 2010

Non so perché la visione dei fiocchi di neve ha un’effetto tranquilizzante (se visti da un luogo coperto e riscaldato ovviamente, e non intendo una macchina…) ma è così. Sarà che il bianco rappresenta per noi qualcosa di puro, di elevato?

Nella tradizione mistica ebraica si cita molte volte un versetto del libro di Daniel che ricorda la neve. In una sua visione notturna Daniel vede degli eventi strani che fungono da metafora per delle azioni che D-o avrebbe preso nei confronti dei popoli. Quando descrive il Sig-re stesso lo vede con delle vesti “di neve bianca” (Daniel 7,9).

Cosa rappresenta la neve e perché è proprio la veste che è descritta in questo modo?

Una delle spiegazioni tratte dalle opere della Chassidùt (Hassidismo):

Cos’è un vestito? Il vestirsi è una esigenza umana esterna (a differenza di quella dell’alimentazione che è interna). E’ anche uno strumento di comunicazione. La persona esprime qualcosa di sé attraverso la maniera nella quale si veste. Al livello elementare, ovviamente, il vestito copre e protegge la persona.

Nella kabalà le mitzvòt (i precetti) sono considerati “vesti”. Vesti nel senso che coprono, cioè nascondo i loro motivi più profondi che sono conosciuti solo da D-o ma anche perché, paradossalmente, rivelano ed esprimono qualcosa di Lui.

Se non fosse per le mitzvòt, noi non avremmo modo di “conoscerlo” o almeno di avere un legame con Esso. Quindi le mitzvòt comunicano.

Perché la neve allora? La bellezza della neve sta nell’insieme di tutti i fiocchi, della nevicata intera e non solo del singolo fiocco. Certo, è bello anche un fiocco, ma la nevicata è maestosa.

Daniel ci insegna che le mitzvòt sono vesti come la neve, belle quando sono prese una ad una, maestose quando sono messe insieme.

Tra tutte le mitzvòt questo concetto si esprime maggiormente in quella della Zedakà (giusta beneficenza). Della Zedakà è detto nel senso metaforico che D-o si veste di essa “come di un’armatura”. Avete presente quelle armature medievali formate di catene e di molti piccoli anelli?

Così come la neve è formata da innumerevoli fiocchi, la forza della Zedakà sta nei piccoli contributi che si uniscono non solo ad assistere gli altri ma anche a formare una grande protezione per chi effettua la mitzvà.

di rav Shalom Hazan

Basato su Likuté Torà Parashà Shelàch, discorso intitolato Ani H’ Elokechem