La Lingua…
La Forza della Parola
La Parashà di questa settimana parla della tzara’at (la “lebbra”). I commentatori spiegano che questa forma di lebbra non era una malattia naturale bensì un fenomeno soprannaturale che poteva colpire chi peccava di “Lashon Harà” una categoria nella quale si include non la maldicenza, pettegolezzi, calunnie e diffamazioni di ogni tipo.
Secondo Maimonide esiste tuttavia un’ulteriore dimensione: vi sono infatti cose che non sono né calunnie né pettegolezzi ma che trasmessi da una persona all’altra si potrebbero trasformare in qualcosa di negativo. Anche questo sarebbe proibito.
Varie situazioni in apparenza innocenti o adirittura positive potrebbero essere Lashòn harà, ad esempio lodare una persona in presenza di un suo nemico che potrebbe reagire in maniera negativa.
L’autore di “Orchòt Tzadikìm” (Le vie dei giusti) scrive che “prima di parlare, sei padrone delle tue parole. Dopo aver parlato, le parole sono padrone di te”.
Non di rado ci ritroviamo imprigionati dalle nostre parole, rendendoci conto di aver detto cose che sarebbe stato meglio non dire e che ormai non sono più sotto il nostro controllo.
Il Midràsh racconta che il saggio Rabban Shim’òn ben Gamlièl chiese al suo schiavo, Tavi, di comprargli qualcosa di buono al mercato. Tavi ritornò con un pezzo di carne, un taglio di lingua. Rabban Shim’òn gli chiese poi di portare qualcosa di cattivo dal mercato. Tavi tornò di nuovo con un pezzo di lingua.
“Com’è possibile, chiese il rav, ti ho chiesto qualcosa di buono e mi hai portato la lingua, e ti ho chiesto qualcosa di cattivo e mi porti la stessa cosa?!”
Disse Tavi: “La lingua ha sia il buono che il cattivo. Quando è buono, è molto buono, ma quando è cattivo può essere molto cattivo…”
Ci si può quindi chiedere come mai, data la gravità del peccato di Lashon Harà, perché non esiste più la tzara’at?
Secondo vari commentatori, il segno della tzara’at esisteva quando la Lashon Harà non era così comune e quindi poteva servire da ricordo nel caso servisse. E’ come se ci fosse una regola non scritta, che se dovessero essere puniti tutti, alla fine non si punisce nessuno. Evidentemente, in maniera alquanto ironica la tzara’at esisteva solo quando il popolo si trovava a un livello spirituale di gran lunga più elevato del nostro.
La tzara’at è superficiale – appare sulla pelle – e riflette un problema superficiale. Quando i problemi sono più profondi, vanno affrontati in profondità e il sintomo esteriore non è più sufficiente.
Ogni giorno diciamo migliaia di parole. Cerchiamo di rimanere consci del loro potere.
di rav Shalom Hazan
…e il Veleno
Humor ebraico
Un uomo si reca presso il proprio rabbino.
“Rav, qualcosa di terribile sta accadendo, mia moglie sta cercando di avvelenarmi”.
Il rav, sorpreso, si meraviglia: “Ma com’è possibile?”
L’uomo assicura il maestro che è proprio così.
Il rav si offre quindi di parlare con la signora e cercare di trovare una soluzione.
L’indomani l’uomo riceve una telefonata dal rabbino. “Allora, ieri ho parlato con tua moglie al telefono per tre ore. Vuoi sentire il mio consiglio?”
“Certamente rav”, risponde l’uomo.
“Bevi il veleno” ….
Amore Facile? No Grazie!
23 aprile, 2010Rabbì Levi Yitzchak di Berdicev era famoso per la sua erudizione nell studio ma ancora di più per la sua forte ahavat Yisrael-amore verso il prossimo-che trovava espressione in tutte le sue interazioni con gli altri.
Si racconta che una volta il Rebbe di Berdicev vide un ebreo che mangiava durante Tishà BeAv, giorno di lutto e di digiuno in ricordo della distruzione del Santuario. Sorpreso, gli chiese se sapesse che fosse il nove di Av. L’ebreo rispose che ne era al corrente. “Forse non sai, disse il Rebbe, che oggi è un giorno di digiuno”. L’ebreo gli rispose che questo non gli era sfuggito.
“Sicuramente per ragioni di salute ti è stato permesso mangiare,” presunse il Rebbe. “Niente affatto, disse l’ebreo, mi va’ di mangiare…”
A questo punto il Rebbe rivolse gli occhi verso l’alto e disse: “Creatore del mondo, guarda come sono onesti i tuoi figli, non mentirebbero mai!”
La mitzvà di amare il prossimo come se stesso si nella Parashà odierna (Kedoshìm – Levitico 19, 18).
Rabbì Levi Yitzchak disse che il suo atteggiamento verso il prossimo gli si radicò nel cuore in merito di una spiegazione del Baal Shem Tov.
La Mishnà afferma che “lo studio della Torà che non sia accompagnato dal lavoro finisce per diventare futile” (Avòt 2, 2). Il Baal Shem Tov spiegò che, oltre il senso letterale, con “lavoro” si intende la mitzvà di amare il prossimo. Perché “lavoro”? Perché la mitzvà dovrebbe essere considerata come un lavoro fatto con cura, con vero impegno e talvolta anche con fatica…
Così come il commerciante non aspetta che la gente lo venga a cercare ma impiega varie strategie per attirare i clienti, anche noi non dovremmo aspettare che l’opportunità di fare qualcosa per un altro ci si presenti; dovremmo piuttosto andare a cercare l’occasione…
Questo è uno degli aspetti del “lavoro” di Ahavat Yisrael.
Un’altro aspetto potrebbe risultare ancora più faticoso: Quello di dimostrare amore e affetto al prossimo anche quando non pensiamo che costui ne è degno…
Amore facile? Certo, ma non ad esclusione di quello difficile!
Basato sulle opere del Rebbe di Lubavitch זי”ע
Tag:ahavat yisrael, amore, ba'al shem tov, kedoshim, parashà, rabbi levi yitzchak di berdicev
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