Il mondo intero ha seguito dal vivo la storia incredibile dei minatori cileni. Cosa è realmente accaduto? Trentatre minatori che lavoravano in una miniera d’oro sono rimasti bloccati a settecento metri di profondità a causa di una frana. Le autorità comunicarono che le possibilità di trovarli erano praticamente nulli ma continuarono comunque con le ricerche.
Dopo diciasette giorni sono stati trovati vivi e dopo quasi settanta giorni sono tutti stati estratti dal ventre della terra sani e salvi.
Se non avessimo tutti visto l’accaduto con i nostri occhi, avremmo pensato che si tratta di una favola…
Con il passare dei giorni e la rivelazione di ulteriori dettagli ci si rende conto che si tratta realmente di un evento miracoloso. Il fatto che siano stati trovati, l’acqua che hanno trovato tra le rocce, il cibo che era sufficiente sino all’ultimo momento e molti altri dettagli.
Il Baal Shem Tov insegnò che ogni evento visto o udito dall’uomo gli può servire come fonte per un’insegnamento nel proprio servizio del Sign-re. A maggior ragione quando si tratta di una storia che ha toccato centinaia di milioni persone nel mondo intero; ci sarà sicuramente una lezione generale da applicare.
Come ben saputo, la parte della Torà che si legge ogni Shabbàt (la parashà) è suddivisa a sua volta in sette parti. L’usanza antica è di studiare ogni giorno della settimana una delle parti, iniziando con la prima parte di domenica, per arrivare pronti allo Shabbàt. Alcuni Maestri insegnavano che si può sempre trovare un legame tra la porzione letta in un giorno specifico e lo stesso giorno.
Lo scorso mercoledì, giorno in cui è uscito l’ultimo minatore, stavo studiando la parte della parashà legata al giorno e arrivato al seguento verso sono rimasto scioccato: “La valle di Sidìm era piena di pozzi di argilla; e i re di Sodoma e di Gomorra fuggirono cadnedo lì e i superstiti fuggirono verso i monti.” (Genesi 14,10)
Il verso sembra fare un riassunto di un evento drammatico accaduto durante una guerra di quattro re contro cinque altri re della zona ma non ci fornisce molti dettagli sull’accaduto. Rashì nel suo commento cita le fonti che ci aiutano a ricostruire la storia. “In quella zona vi erano molti pozzi dai quali si traeva l’argilla per le costruzioni” – si tratta quindi di una sorta di miniera nella quale sono sprofondate delle persone (vi ricorda qualcosa?). Rashì continua: “Un miracolo accadde per il re di Sodoma che uscì da lì”. Non ci sono stati trasmessi informazioni sulla tecnologia adoperata per il salvataggio ma il re di Sodoma si salvò in qualche modo dal ventre della terra. È incredibile che la storia si è letta nella stesso giorno che il mondo intero seguiva il salvataggio dei minatori, un evento molto simile, 4.000 anni dopo!
Tornando alla storia biblica la domanda è perché? Perché è stato salvato miracolosamente il re di Sodoma? Citiamo di nuovo Rashì che cita le fonti antiche: “Poiché vi erano tra i popoli alcuni che non credevano che Abramo era stato salvato dalla fornace ardente [nella quale era stato gettato dal re pagano perché non adorava gli idoli. NDT] ma quando videro che il re di Sodoma si salvò dall’argilla credettero a ritroso anche nel miracolo effettuato per Abramo”.
Rashì spiega in effetti che il miracolo accadde per rafforzare nel mondo la fede in D-o. Abramo, che divulgò l’unicità di D-o nel mondo, mettendosi contro tutti, fu gettato nella fornace ardente ad Ur Kasdìm e ne uscì senza danni, il miracolo servendo chiaramente da indicazione della presenza di D-o. Pur non essendo Sodoma molto vicina ad Ur Kasdìm, le voci del miracolo accaduto arrivarono anche lì ma vi era chi non ci credeva. Cosa fece il Sign-re? Dimostrò la Sua presenza ed il Suo coinvolgimento nel mondo facendo salvare miracolosamente il re di Sodoma (accanto al quale in quel momento lottava Abramo).
Quasi quattromila anni più tardi trentatre minatori rimangono bloccati nelle profondità. Durante i primi diciasette giorni l’umanità non pensa che siano ancora vivi. Non ricevono alcun segno da fuori. Come hanno potuto sopravvivere in questo periodo? Sappiamo che il cibo per due giorni è stato diviso tra “i 33” per durare 17 giorni. Mangiavano due cucchiai di tonno, mezzo bicchiere di latte ed un mezzo biscotto ogni quarantott’ore. Ma cosa li ha dato la speranza di essere trovati vivi? Da dove hanno tratto la forza per sopportare la situazione e sperare in bene?
Il più giovane tra i minatori, un dicianovenne, scrisse dall’interno del rifugio sotteraneo: “non pensate che siamo in trentatre, siamo trentaquattro. D-o è con noi”. In questa riga spiegò la possibilità di sopravvivenza nelle condizioni terribili nelle quali si trovavano. Se avessero creduto solo nella forza umana, le chances di essere trovati dopo oltre due settimane dalla scomparsa non sono molte. Quando l’uomo si accorge invece della presenza dell’Essere Divino che è presente nella realtà umana, sa bene di non essere mai solo e che quindi vi è sempre speranza.
Con la speranza e la fede i minatori non hanno rinunciato ed hanno fatto di tutto per uscire sani e salvi dalla loro situazione, dividendo il cibo per la durata più lunga possibile, cercando l’acqua e provando in ogni maniera a mandare messaggi alla superficie.
Come nel miracolo di salvezza dal pozzo quattromila anni fa, miracolo effettuato per rafforzare la fede in D-o, anche il miracolo nella miniera d’oro cilena porta un messaggio di fede udito da una parte del mondo all’altra: Qualora una persona si dovesse trovare in un luogo oscuro ed isolato, senza ombra di speranza, deve riconoscere che no è solo – il Creatore conosce lui e la sua situazione, conosce l’oscurità e la sofferenza. Questa stessa conoscenza rafforza e supporta la persona dandogli luce e speranza. La fede poi non rimane un sostituto dell’azione bensì diventa la motivazione di fare il massimo anche sotto le condizioni delle più grande difficoltà.
Le nostre preghiere e i salmi trasmettono spesso questo messaggio. “Inalzo i miei occhi verso i monti – dice il salmista – da dove giungerà la mia salvezza?!” La risposta è fornita subito “la mia salvezza giunge dal Sign-re, Creatore del cielo e della terra”.
“Anche se dovessi andare nella valle dell’ombra della morte, non temerò alcun male perché Tu sei con me” (Salmi 23, 4).
Questa è la nostra consolazione e la nostra speranza.
Di rav Meir Kaplan Chabad Lubavitch di Victoria, British Columbia
A cura di rav Shalom Hazan, Chabad Lubavitch di Monteverde
Questione di Vita e Morte
29 ottobre, 2010La Parashà di questa settimana descrive gli eventi della vita di Avrahàm e i suoi dicendenti, dopo la morte di sua moglie, Sara. Con questo in mente, è difficile capire il senso del nome della Parashà (il quale rappresenta anche il contenuto della stessa): “Chayè Sarà”, ossia “la vita di Sara”!
I nostri maestri spiegano che la vita nella sua forma più autentica, avendo come fonte il Divino stesso, è anch’essa intrinsicamente eterna. È per questo che nell’ebraismo la morte è legata all’impurità, perché la mancanza di vita indica un vuoto di santità e purezza. Laddove il Divino è rivelato, c’è solo vitalità.
Questo ci aiuta a capire il detto del Talmùd “il nostro padre Ya’akov non morì” (Ta’anit 5b) con tanto di spiegazione: “attraverso la vita della sua progenia, è vivo anche lui”.
Un corpo può morire, ma non una vita (un’anima) legata alla fonte di vita come quella di un giusto come Ya’akov. Al contrario, sono proprio gli eventi che accadono dopo la morte che possono testimoniare sulla continuità della “vita” del deceduto.
Lo stesso vale riguardo la Parashà di questa settimana e la morte di Sara. Proprio qui, ove vengono descritti gli eventi che seguono la morte di Sara, si mette in evidenza la parte eterna della sua vita. È possibile vedere l’impatto che ha avuto sul suo ambiente – un impatto che non “muore”.
Gli eventi della Parashà sottolineano la mancanza della figura di Sara e al tempo stesso dimostrano la sua “vita”.
Avrahàm e Sara erano i primi ebrei che hanno vissuto nella futura Terra d’Israele ma proprio la sepoltura di Sara (nella caverna della Machpelà) è risultato dal primo acquisto di terreno da parte di un ebreo nella Terra Santa.
Sara aveva dedicato la vita al formare la prima famiglia ebrea; il matrimonio di Isacco e Rebecca, descritto in questa Parashà dimostra come il sucessore di Sara vivesse gli ideali sui quali Sara aveva fondato la casa ebraica, continuando le sue stesse tradizioni di accendere le candele dello Shabbàt, di seguire le leggi della purezza famigliare e di preparare le challòt per lo Shabbàt e tramandandole a tutte le generazioni future di donne ebree.
Il nome Chayè Sarà, quindi, esprime il vero messaggio di questa Parashà. Poiché fin quando Sara viveva ancora, la sua vita poteva essere vista come uno stato temporaneo, una vita con un inizio e una fine limitata da un corpo e da un tempo definito.
Solo dopo la sua morte si rivela l’impatto eterno della sua vita.
Basato sulle opere del Rebbe di Lubavitch, זי”ע
A cura di rav Shalom Hazan, Chabad Lubavitch di Monteverde
Tag:avraham, chaye sara, parashà, rebbe di lubavitch, sarah, yaakov
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