Archive for agosto 2011

Profeti, Test e Prove

26 agosto, 2011

Vi sono profeti falsi intorno. Ci sono sempre stati! Già in antichità la Torà ci avvertiva di non seguire coloro che possono sembrare di essere profeti. Potrebbero anche fare miracoli come i profeti vari, ma non lo sono.

Perché mai consentirebbe il Sign-re che un profeta falso faccia vedere meraviglie e miracoli? La risposta, ci dice la nostra Parashà, è che questa è una delle maniere in cui D-o ci mette alla prova. Se amiamo veramente il Sign-re con tutto il nostro cuore e anima, non verremo condizionati anche dagli “effetti speciali” ma falsi. C’è anche il test per chiarire la situazione: Il profeta ci invita a seguire le leggi del Sign-re o di ignorarle? E se il presunto profeta stesso non segue le istruzioni della Torà è chiaro che si tratta di un impostore.

Come dicevamo questa del falso profeta è solo un tipo di prova di cui ce ne sono molte. La povertà, per esempio, è una grande prova per la fede e la tragedie ancora peggio. Ogni individuo deve affrontare le proprie prove e i propri ostacoli che è come se fossero fatti su misura per lui. Ciò che è difficile per uno rimane molto facile per un altro. L’imprtante è ricordare che la difficoltà del momento è, in realtà, una prova. Questo ci aiuta a superarla.

Non sempre, però ci ricordiamo di questo e che forse la situazione che abbiamo davanti è una delle prove più importanti delle nostra esistenza. A volte non apprezziamo il fatto che l’anima è venuta in questo momento proprio per esprimere la forza che si rivela solamente nel superare questi ostacoli.

Per questo razionalizziamo.

Se c’è un D-o, dov’era durante Auschwitz?

Se D-o non voleva che prendessi i soldi, perché quello ha lasciato la cassa aperta?

Se questo rapporto è sbagliato, perché mi sembra così giusto?

Se il Sign-re vuole veramente che non lavoro di sabato, perché è il giorno che si lavora di più?

Ma se accettassimo che sono tutte prove, forse diventerebbe più facile affrontarle.

La domanda rimane: Perché D-o ci mette alla prova? E’ veramente come è detto nella Parashà “per sapere se amiamo il Sign-re con tutto il nostro cuore e anima”? Ma D-o non lo sa già? Come è possibile per noi chiarire le idee al Sign-re? C’è qualcosa che non sa?

La risposta, secondo rabbì Shneur Zalman di Liadì nella classica collezione dei suoi discorsi, Likuté Torà, è che non è per fare sapere a D-o bensì farlo sapere a noi stessi. Certo che il Sign-re sa tutto. Tuttavia Esso ci pone dinanzi alle prove ed agli ostacoli per aiutarci a portare in evidenza il forte amore verso di Esso che però spesso è latente e nascosto al nostro interno.

Quando superiamo gli ostacoli ci accorgiamo noi di avere una forza interna formidabile e che siamo fortemente credenti. Diventiamo più sicuri e fiduciosi di noi stessi nonché arricchiti di una percezione ed una consapevolezza più profondi del Divino.

Sia chiaro: non le cerchiamo, le prove. La mattina nella preghiera chiediamo D-o di non metterci alla prova. Se però arriva il momento, ricordiamoci di cosa si tratta in realtà. Il test sarà poi superato con il massimo dei voti.

di rav Yossi Goldman
adattato e tradotto da rav Shalom Hazan

Pane, Soldi e Senso

18 agosto, 2011

 “Non di solo pane vive l’uomo”. E’ sicuramente una famosa frase ma qual è il suo significato?

Il versetto deriva dalla Parashà di questa settimana e si riferisce alla miracolosa manna, che cadeva dal cielo durante il soggiorno degli ebrei nel deserto. La conclusione del versetto dice “l’uomo vive, invece, dalla parola emanata dalla bocca del Divino”. Ci ricorda quindi la vera fonte del sostentamento dell’umanità.

A differenza dell’idea comune, non è la nostra fatica terrena, né il sudore o gli incontri di lavoro che assicurano il nostro successo. La realtà è che è il Sign-re che ci sostiene nella stessa maniera che i nostri erano completamente dipendenti da Esso per il pano uotidiano, durante il periodo trascorso nel deserto. Il benessere è un dono Divino. In fin dei conti non è la nostra capacità lavorativa di per sé che fa sì che sia fornito il pane quotidiano bensì le benedizioni dall’Alto che danno successo alle nostre fatiche.

Qualunque commercianto potrà confermare che i progetti più preparati e pensati sono finiti in fumo mentre un ordine importante spesso arriva come dal nulla. Certo, non è la regola e bisogna prepararsi a faticare per potere riscuotere successo. Quando però accade in maniera inaspettata, è un ricordo che vi sono delle forze che operano aldilà del nostro controllo.

Vi è però un altro significato in questo versetto. Non di solo pane vive l’uomo. Lo spirito umano richiede più del solo pane. Gli essere umani non sono mai soddisfatti con i soli beni materiali o il denaro.

Il denaro è importante ma non si può vivere solamente di esso. Consideriamo per esempio la soddisfazione dal lavoro stesso. Conosco diverse persone nella nostra comunità che hanno rinunciato a posti di lavoro importanti per prenderne altri meno lucrativi perché trovavano poco stimolante il loro lavoro. Certo guadagnavano bene, non vedevano la “ricompensa emotiva”.

Conosco altre persone che hanno tutto al livello economico ma non sono contente. Hanno molto successo e sono molto infelici. I successi non garantiscono la felicità. L’acquisto di beni porta una contentezza momentanea. Per una soddisfazione duratura “l’acquisto” deve essere più spirituale che materiale. Abbiamo bisogno più di pane e denaro; abbiamo bisogno di stimolazione e un senso di realizzazione significativa. Abbiamo bisogno di sapere che la nostra vita ha significato e che possiamo fare una differenza nel mondo e nella vita degli altri.

Si racconta di un prigioniero in un campo di lavoro forzato sovietico il quale aveva il compito di girare una leva pesante che era attaccata al muro della cella. Per venticinque anni il prigioniero ha faticato a lavorare. Era sicuro che la leva fosse legata a un mulino, o ad una pompa per irrigare i campi. Nella sua mente vedeva i raccolti agricoli o le sacche di grano che alimentavano migliaia di persone.

Scontata la pena chiede prima di tutto di poter vedere l’apparato attaccato all’altra parte della leva. Non c’era nulla! La leva girava a vuoto. Tutto il suo “lavoro” serviva a nulla. L’uomo subì subito un colasso mortale, completamente devastato. Una vita vissuta e faticata in vano.

Abbiamo un profondo bisogno di sapere che la fatica della nostra vita ha significato, materiale e spirituale. Quando ci rendiamo conto che ogni buona azione è legata ad un apparato spirituale complesso, che ogni nostra aziona si lega ad un sistema di importanza cosmica, allora la nostra vita si dota di un senso profondo.

Allora siamo contenti.

L’uomo semplicemente non può vivere di solo pane.

di Rav Yossi Goldman, pubblicato su Chabad.org
Tradotto e adattato da rav Shalom Hazan

Il Ladro Credente

11 agosto, 2011

“Shemà Yisrael Ado-nai Eloh-énu Ado-nai Echàd.”

Questa preghiera in realta’ e’ un versetto tratto dalla Parasha’ di questa settimana, nella quale Moshé continua ad istruire e preparare il popolo d’Israele ricordando loro anche gli eventi che li hanno portati al punto di trovarsi, al culmine dei quarant’anni nel deserto, sulla soglia della Terra Santa.

Sono molti i commenti su questo versetto e la sua importanza. Cerchiamo di esplorarne alcuni:

1) “Shemà Yisrael” vuol dire “ascolta Israele”. Moshe invita il popolo ad ascoltare, ad approfondire, a prendere atto. Il contenuto del versetto non e’ solamente un invito generico al popolo ma diventa un’esperienza personale. Quando l’ebreo recita lo Shemà due volte al giorno è come se parlasse a se stesso. Chiamandosi con il nome del popolo “Yisrael” la persona dice a se: Ascolta Yisrael: D-o è nostro ed è unico.

2) Nel scrivere la Tora’ vi sono tre misure di lettere. Quelle medie, le piu’ comuni, le lettere grandi e quelle piu’ piccole. Vi e’ sempre un significato e un motivo per la presenza di una lettera “straordinaria”. Nel nostro versetto ne troviamo due. La ‘Ayin ע della parola Shema’, e la dalet ד della parola echad.

Uno degli insegnamenti in riguardo: Unite, queste due lettere formano la parola ‘Ed, che significa “testimone”.
Il significato è doppio. Da una parte, leggere lo Shemà è una forma di testimonianza della presenza e l’unicità di D-o. Dall’altra, l’ebreo stesso, la sua esistenza, è un miracolo che testimonia la grandezza di D-o. Il profeta Isaia, infatti, profetizza dicendo “Voi siete i Miei testimoni…” (Isaia 43, 10).

Quando ci si chiede “qual è la prova della Sua esistenza?”, basta guardare il Suo popolo, che nonostante molti abbiano cercato di annientarlo, rimane ancora in esistenza.

3) Le stesse due lettere messe nell’ordine contrario, formano la parola – “sappi”. Questo potrebbe alludere alla mitzvà di approfondire la conoscenza del Creatore (Devarìm 4, 39, vedi anche Cronache I 28, 9).

Il significato è che a parte l’obbligo di credere in D-o, il concetto della fede nell’ebraismo, siamo anche portati a studiarLo, dalle fonti giuste, e quindi di “conoscerLo” anche se in modo definitivo la cosa non è possibile.

La differenza tra la sola fede e quella accompagnata dallo studio approfondito si esprime anche nel nostro comportamento.

Il Talmud parla del ladro che prima di andare a “lavorare” prega il Sign-re che non sia visto e preso. Che paradosso! Se non avesse la fede non pregherebbe, ma se ce l’avesse realmente non commetterebbe furti!

In realta’ la fede potrebbe anche averla, ma ma la fede spesso rimane “in sospeso” in un vuoto tra l’anima e la persona, non sempre, quindi, si esprime nelle azioni.

Solo quando accompagnata dallo studio, la conoscenza, la fede fiorisce e produce frutti deliziosi.

di Rav Shalom Hazan

Niente Storie

5 agosto, 2011

Non Storia – Memoria

Questo Shabbat si legge la famosa “visione di Isaia”, la profezia riguardo la futura redenzione. Lunedi’ sera e martedi’ ricorderemo la distruzione del Tempio quasi 2000 anni fa osservando il digiuno e il lutto del digiuno di Tisha’ BeAv.

Ma perché ricordare? Il mondo non può capire perché continuiamo a parlare della Shoà – che accadde solo sessant’anni fa! Per più di diciannove secoli, ricordiamo e osserviamo quest’evento che diventò il giorno più triste del nostro calendario. Perché? Quello che fu, fu. Perché tornare a delle visioni antiche e dolorose?

Si racconta che una volta Napoleone passò attraverso il quartiere ebraico di Parigi e sentì voci di pianti e lamentele che emanavano dalla sinagoga. Si fermò e chiese di che cosa si trattasse e gli venne detto che gli ebrei lamentavano la perdita del loro Tempio. “Quando è successo?” chiese l’imperatore. “Circa 1700 anni fa”, fu la risposta. A questo punto Napoleone disse che un popolo che non si dimentica del proprio passato è destinato a sempre avere un futuro.

Gli ebrei non hanno una storia, bensi’ una memoria. La storia può diventare un libro, un museo o dei relitti archeologici. La memoria vive e garantisce il futuro.
Anche tra le rovine del primo Tempio, ci siamo rifiutati di dimenticare, ed è proprio per questo che siamo tornati.

Proprio per questo rifiuto siamo riusciti a costruire comunità nel mondo intero, mentre quelli che ci hanno conquistato sono stati conquistati dal tempo. Oggi non esistono babilonesi, e i romani che si trovano a Roma non sono quelli che hanno distrutto il nostro Tempio. Quelle nazioni diventarono parte della storia mentre noi, ispirati dalla memoria, continuiamo a dire – e vivere – “‘am Israel chai”, il popolo d’Israele vive.

Adattato e tradotto da un articolo di

Rav Yossy Goldman pubblicato su Chabad.org