La vita del terzo e ultimo patriarca giunge alla sua fine nella nostra Parashà, in corrispondenza alla conclusione del primo libro dello Torà. Prima di morire Yaacov benedice ognuno dei figli con un messaggio particolare.
Secondo gli insegnamenti dei maestri, in particolare nell’ambito mistico, i messaggi trasmessi da Yaacov quel giorno sono rivolti, in realtà, a tutti i suoi discendenti in perpetuo. Ogni anima contiene tutte e dodici le caratterestiche specifiche di ognuna delle tribù, caratteristiche attraverso le quali la persona si rapporta con il Sign-re.
Questi messaggi sono allusi anche nei nomi dei dodici figli di Yaacov. Di seguito solamente pochi esempi.
La parola Reuven, il nome del primo figlio di Yaacov, è legato alla vista (ראובן – ראיה) mentre Shimòn è legato all’udito (שמעון – שמיעה).
Reuven come concetto si riferisce alla capacità dell’anima di vivere un legame con il Sign-re non solo al livello intellettuale ma anche “visivo”. Cosa vuol dire? Semplicemente che l’anima riconosce la realtà Divina come se fosse un fatto o un evento testimoniato da una persona con i propri occhi. La vista ha un effetto talmente forte su colui che vede che non potrà essere convinto da prove o idee contrarie a ciò che ha visto. Non rimangono dubbi.
L’anima alimenta la propria “visione” del Divino attraverso la meditazione profonda che suscita in essa un profondo amore verso D-o (il concetto si esprime anche nel mondo materiale in quanto l’amore e l’attrazione è reso possibile dalla vista).
Il concetto di Reuven è legato alla prima parte dello Shemà (Veahavtà) in cui si parla dell’amore che si prova nei confronti di D-o.
Il concetto di Shimòn, invece, si riferisce al legame intellettuale, simile a ciò che potrebbe essere udito da lontano. La persona che sente raccontare un evento da una fonte attendibile ci potrebbe credere, ma non è comunque paragonabile a colui che lo ha visto.
Un’esperienza di questo tipo produce rispetto e timore, non vicinanza ed amore. Udire, comprendere, la grandezza del Sign-re fa sì che la persona si senta piccola, quasi con un istinto di “fare un passo indietro”.
Questo percorso dell’anima è legato al secondo passaggio dello Shemà, intitolato “Vehayà…Shamo’a” Ossia “Quando darai ascolto ai comandamenti…” ed è legato alla “yirà” il timore, contrapposto all’amore del primo paragrafo.
Da qui arriviamo a Levì, terzo dei figli, il quale nome connota il legame e l’attaccamento e si riferisce, in questo contesto, all’attaccamento al Sign-re attraverso lo studio della Torà che è la saggezza Divina. (Perché proprio attraverso lo studio si considera l’attaccamento maggiore al Creatore? C’è un motivo specifico ma preferisco non allungare troppo nella newsletter; scrivimi se ti interessa e te lo mando).
Questa terza fase è legata al brano che segue lo Shemà, Emet Veiazìv, che parla della autenticità della Torà.
I primi tre figli rappresentano con queste idee le tre colonne su cui il mondo si mantiene (Avot 1:2): Torà, Tefillà e Azioni di Beneficenza.
Reuven rappresenta la colonna della Beneficenza. Poiché un autentico amore del Creatore produce un amore per le sue creature e un desiderio di effettuare del bene.
Shimon rappresenta la preghiera, ossia lo sforzo di chi è lontano di elevarsi ed avvicinarsi al Divino.
Levi rappresenta la colonna della Torà.
Una volta l’anima ha potuto avere queste tre esperienze (che ormai abbiamo capito non si escludono l’un l’altra) è pronta ad affrontare il concetto di Yehudà – il nome del quarto fratello. Yehudà dalla parola hoda’à, riconoscimento, ammettere. Nell’ammettere la persona si sottomette totalmente, in una trasparenza silenziosa. Questa è l’espressione della Amidà, in cui la persona silenziosamente si rivolge ad Hashem come un serve dinanzi al re, annullando completamente il proprio io.
Una delle lezioni da trarre da ciò è che non è semplice annullarsi. E’ solo dopo aver studiato profondamente, amato e sentito il timore di Hashem che la persona può realmente annullare il proprio ego.
Basato su un discorso (molto più lungo e dettagliato di quanto è stato possibile includere qui) del Rebbe Shneur Zalman, fondatore di Chabad. Pubblicato in Torah Ohr.
Adattato da Shalom Hazan e Yossi Marcus
Sarò Quel che Sarò
13 gennaio, 2012“Sarò” (Esodo 3:14)
Sarò con voi nella vostra difficoltà odierna e sarò con voi nei futuri esilii e persecuzioni. (Rashì in loco)
Quando il Sign-re apparse a Moshè nel roveto ardente e gli diede l’incarico di portare il popolo ebraico fuori dal Egitto, Moshè disse: Ecco che andrò dai figli di Israel e dirò loro “Il D-o dei vostri padri mi ha mandato da voi” e mi diranno: “Qual è il Suo nome?”, cosa dirò loro?. D-o disse a Moshè: “Ehye asher ehye” (sarò colui che sarò)… così dirai ai figli di Israel: “Ehyè mi ha mandato da voi!”.
Un D-o Anonimo?
Il nominare qualcosa è un modo di descriverlo e di definirlo. D-o, che è infinito e indescrivibile, non può realmente essere nominato. In realtà il Sign-re non ha un nome, bensì delle descrizioni che corrispondono a comportamenti diversi che hanno diversi effetti sulla nostra vita.
Nelle parole del Midrash: “Il Sign-re disse a Moshè: Vuoi conoscere il mio nome? Io sono chiamato secondo le Mie azioni. Potrei essere nominato E-l Shad-dai, o Zeva-òt, o Eloh-im, o Ha-Va-Ya-H (il tetragramma). Mentre giudico il creato, sono nominato Elo-him. Quando combatto contro i malvagi mi chiamo Zeva-ot. Quando sono tollerante delle pecche dell’uomo sono nominato E-l Shad-dai. Quando mi comporto con compassione e misericordia mi chiamo Ha-Va-Ya-H…”
In questo si trova l’aspetto più profondo della domanda che Moshè si aspettava di sentire da parte del popolo. Come si chiama? avrebbero sicuramente chiesto. Ossia, in che maniera si sta comportando in questi tempi? Tu, Moshè, dici che D-o ha visto la nostra sofferenza in Egitto, ha udito il nostro richiamo e conosce il nostro dolore e che quindi ha mandato te per redimerci. Dove è stato finora? Dove è stato per gli ottantasei anni durante i quali siamo stati sottomessi dalla frusta, mentre i neonati vengono strappati dalle mani delle madri e gettati nel Nilo. Che nomne assume ora D-o, dopo ottantasei anni in cui sembra non aver avuto alcun nome data la sua apparente assenza dalla nostra vita?
Divino ma non Sacro
Come abbiamo spiegato, ognuno dei nomi divini rappresenta l’attributo con il quale il Sig-re si rapporta alla creazione. Elo-him rappresenta l’assumere una posizione di giustizia, Ha-Va-Ya-H rappresenta un atteggiamento di compassione, e così via. E-heyè (“Sarò”), il nome con il quale D-o si identifica in questo caso a Moshè, rappresenta l’assumere, da parte di D-o il “Essere” e la “Esistenza”.
E’ per questo che tra le autorità halakhiche vi è discussione riguardo a questo nome, se è da considerare uno dei sette nomi sacri che non possono essere cancellati. La legge della Torà proibisce il cancellare i nomi di D-o perché la carta stessa, per esempio, assume un certo aspetto di santità essendo rappresentativo di un qualcosa di Divino.
Come si spiega questo paradosso? Potremmo capirlo meglio approfondendo il significato del termine “sacro” o “santità”. Cosa rende una cosa sacra? Il sacro, in ebraico Kadosh, vuol dire distinto e trascendente. D-o è sacro in quanto trascende la nostra realtà mondana. Shabbat è un giorno sacro perché è un momento distinto dalla mondanità di tutti i giorni. Un Séfer Torà o un paio di Tefillìn sono sacri perché sono degli oggetti che trascendono la loro materialità per servire un fine Divino.
Lo stesso concetto si applica ai sette nomi divini: ognuno di essi descrive un’attività Divina che va oltre la normalità materiale e mondano, ovvero rappresenta un intervento del divino all’interno della nostra realtà. D-o come giudice, come salvatore, come combattente, ecc. D’altro canto, il nome Ehe-ye (“Sarò”) rappresenta D-o nel Suo “essere” e nel Suo “esistere”. D-o come l’essenza della realtà.
Se la santità rappresenta la trascendenza di D-o, l’essenza esistenziale di D-o rappresenta una dimensione del Divino che pervade tutto ciò che esiste trascendondolo al tempo stesso e quindi rapportandosi in maniera uguale al “sacro” e al “profano”.
La risposta
Questa fu la risposta Divina alla domanda “Come si chiama?”.
“Dì ai figli di Israel, disse il Sign-re a Moshè, che il mio nome è Ehe-ye. Dove ero per tutto questo tempo? Con voi. Io sono esistenza, Io sono realtà. Mi trovo nel sospiro dello schiavo colpito, nel pianto di una madre in lutto, nel sangue di un bambino ucciso. Alcune situazione devono esserci anche nel dolore, ma non progetto queste cose da un lontano cielo che trascende il vostro dolore. Sono lì, insieme a voi, nella vostra sofferenza.
“Se non mi potete vedere non è perché sono etereo ma perché sono talmente parte della realtà”.
In altre parole, D-o è presente non solo in ciò che possiamo definire Sacro (nel dire questo porremmo un limite davanti ad Esso) ma anche in ciò che a noi sembra essere la realtà banale e mondana.
basato sulle opere del Rebbe di Lubavitch, adattato da Yanki Tauber per meaningfullife.com.
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