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Cambio di Potere

23 settembre, 2011

Verso la fine del quinto libro della Torà, Devarìm, ci si avvicina al tramonto di quel grande sole che era Moshé. La metafora del sole ha come fonte il Talmud (Bava Batra 75) che la impiega proprio per sottolineare la difficoltà, l’impossiblità forse, davanti alla quale si troverà colui che dovrà guidare il popolo dopo il tramonto di quel sole. “Il volto di Moshé somiglia al sole, mentre quello di Giosué alla luna”.

In altre parole, Giosué riflette la luce del suo maestro ma non può certo essere paragonato a lui. In effetti, la Torà stessa lo dice: “Non ci fu più un profeta come Moshé” (Devarìm 34, 10), lasciando intendere che non ci sarà più.

Il popolo, lo stesso popolo che tutte quelle volte si ribellò e rese la vita di Moshé molto dura, non accettò facilmente la sua scomparsa.

Il Talmud racconta: Prima della sua scomparsa, Moshé disse a Giosué: “Raccontami tutti i tuoi dubbi” (in modo che il maestro gli possa dare le risposte). Giosué non aveva dubbi. “Ti ho forse lasciato per un momento?” chiese Giosué. A quel punto, racconta il Talmud, Giosué si scordò di trecento Halachòt e gli sorsero settecento dubbi sulle Halachòt che ricordava.

Il popolo si arrabbiò e volle eliminare il nuovo leader. Disse il Sign-re “non posso insegnarti le Halachòt [come Ho fatto con Mosé], li distraerai quindi con la guerra [della conquista della Terra Santa]”. (Temurà 16a)

Che cosa accadde qui? Il popolo voleva che Giosué continuasse la leadership di Moshé, continuando la sua stessa strada dell’insegnamento della Torà. Vedendo che non era all’altezza, si arrabbiarono. D-o spiegò che avevano sbagliato: un nuovo leader segnala non solo un’altra persona ma anche un programma diverso.

Il compito di Moshé riguardava più che altro la trasmissione della Torà, mentre per Giosué era la conquista della Terra che aveva la precedenza.

Qui la Torà ci insegna anche che non si possono fare paragoni tra le guide di un popolo, poiché il Sign-re manda sempre quello più adatto alla nuova generazione ed alla situazione che cambia sempre.

Vi è anche una lezione pertinente all’educazione dei propri figli. Anche questa, in fin dei conti, è una posizione di leadership con la dinamica del cambiamento tra una generazione e l’altra.

Il messaggio è rivolto quindi ai “leader” delle famiglie, i genitori. Non pensate che l’esperienza ebraica che era sufficente per la vostra soppravvivenza come ebrei sia sufficente anche per i vostri figli.

Il mondo è cambiato e la generazione è completamente diversa. Date loro la forza e le possibilità aggiuntive delle quali hanno talmente bisogno.

Di rav Shalom Hazan
Chabad-Lubavitch di Monteverde

Sei Un Leader?

30 giugno, 2011

Sei un Leader?

La parashà di questa settimana contiene uno dei misteri più profondi della Torà: le leggi della “mucca rossa”. Questo è il rituale attraverso il quale chi fosse diventato ritualmente impuro venendo in contatto con la morte, avrebbe potuto purificarsi.

Sono talmente misteriose le norme di questa Mitzvà, che secondo i maestri del Talmud neanche il saggio re Salomone riuscì a comprenderle. Secondo la tradizione solamente Moshè ebbe questo merito, come dice il midrash “a te rivelo la ragione della vacca [rossa]” (Bamidbàr Rabbà 19, 6).

Forse l’aspetto più strano di questa mitzvà è il fatto che i Cohanim coinvolti nella preparazione delle acque che venivano spruzzate sulla persona impura per purificarla, diventavano a loro volta impuri. Ossia le stesse acque che rendevano l’uno puro rendevano l’altro impuro!

Cambiando il contesto, però, la cosa potrebbe diventare un po’ più chiara. Se i leader spirituali-religiosi sono come i Cohanim, essendo responsabili della purezza spirituale del popolo, questi non possono sempre rimanere intoccabili dalle impurità che toccano la gente comune.

Un leader spirituale è uno che è disposto ad abbassarsi, a scendere al livello degli altri per purificarli, anche se lui stesso sarà affetto dall’impurità degli altri.

Perché è così? Secondo il Midràsh, la mucca rossa ha anche un valore riguardo la responsabilità del popolo d’Israele per la colpa commessa: “venga la madre – la mucca – ed espii i peccati del figlio – il vitello d’oro”.

Nello stesso modo, i leader sono considerati responsabili del benessere spirituale del popolo.

Questa martedì, il 3° di Tamuz (quest’anno il 5 luglio) ricorre l’anniversario della scomparsa del Rebbe di Lubavitch. Dal punto di vista della responsabilità, lui era un leader dell’ebraismo mondiale. Si sentiva responsabile di ogni ebreo. Dall’ebreo di Sydney a quello di Rio de Janeiro, dall’ebreo di Parigi a quello diShanghai a quello di Haifa.

La prova della responsabilità non sono i sentimenti ma le azioni. Il Rebbe si sentì responsabile di ogni singolo ebreo e perciò creò una comunità non di seguaci ma di leader, che mandò come suoi emissari a combattere l’assimilazione attraverso i più di 3.500 centri Chabad-Lubavitch nel mondo, innovando il concetto del “Jewish outreach” oramai adottato, grazie a D-o, da tutte le grandi organizzazioni ebraiche.

Ma il messaggio del Rebbe è ancora più profondo. Per lui, ogni persona era un leader. Chi ha una famiglia, organizza un gruppo, fa qualcosa per la comunità o ha degli impiegati, è un leader ed dovrebbe considerarsi  responsabile della sua sfera d’influenza.

Penso che l’omaggio più adatto a questa grande figura sia non tanto il discorso e il racconto della sua vita ma la mitzvà fatta con un senso di responsabilità verso gli altri portando avanti l’opera della sua vita.

di rav Shalom Hazan

Alimentazione Metafisica

18 febbraio, 2011

Alimentazione Metafisica
Un assaggio del ragionamento di Yeshivà

La Torà ci racconta che Mosè salì sul monte Sinai e rimase lì per quaranta giorni e quaranta notti e non bevve né mangiò nulla durante quel periodo. Com’è possibile una cosa del genere?

Secondo la legge ebraica, la Halachà, è impossibile sopravvivere per più di sette giorni senza né mangiare né bere. Se una persona giura di non mangiare per sette giorni, questo giuramento è considerato falso!

Vi sono tre spiegazioni sul fenomeno della sopravvivenza di Mosè sul monte:

1) Pur trovandosi in un ambiente celeste il corpo di Mosè rimase umano, esigendo cibo, liquido e sonno. Fu il Sign-re che fece sì che Mosè rimanesse vivo “in maniera miracolosa” anche essendo privata dall’alimentazione fisica.

2) L’accaduto non era un miracolo ma piuttosto un fenomeno naturale di estrema rarità. Mosè era talmente contento da una parte ed impegnato mentalmente dall’altra nel ricevere la Torà che questa grande felicità e l’impegno forte fecero sì che nonostante il corpo fosse stanco e richiedesse le esigenze ad esso necessarie, Mosè non lo sentì.

3) Quando Mosè salì sul Sinai la natura del suo corpo cambiò e diventò come quello degli angeli. Così come gli angeli non necessitano di cibo e liquidi anche Mosè “in quei giorni” non aveva esigenze terrene. Secondo questa interpretazione Mosè non era stanco, affamato ed assetato perché si trovava in una realtà diversa.

Esiste una regola talmudica secondo la quale anche opinioni diverse od opposte potrebbero essere tutte valide. Si potrebbe spiegare che tutte le interpretazioni citate trovano riscontro nelle tre volte che Mosè salì sul monte.

La prima volta salì per ricevere le prime Tavole della Legge che erano “miracolose” poiché furono create ed incise dal Sign-re stesso. Anche il corpo di Mosè fu miracolosamente alimentato.

La seconda volta, quando Mosè salì per fare perdonare il peccato del vitello d’oro, fu talmente preso con le preghiere e le richieste che non sentì le “richieste” del proprio corpo.

La terza volta salì per ricevere le seconde Tavole. A questo punto aveva raggiunto un livello talmente elevato che il suo corpo era come quello di un angelo e non aveva bisogno di mangiare.

In effetti, solo dopo la terza volta che Mosè scese dal monte la Torà  ci parla dei raggi di luce che emanavano dal suo volto. Era un’indicazione del livello elevato al quale era arrivato proprio quella volta, nella sua ultima salita al Monte Sinai.

Basato sulle opere del Rebbe di Lubavitch זצ”ל
Adattato da rav Shalom Hazan

Sicuro Che Lo Meriti?

23 luglio, 2010

In quel momento pregai il Sig-re dicendo…

E’ così che Moshe descrive la sua preghiera e richiesta per potere entrare nella Terra d’Israele usando anche una parola (va’etchanàn) che i commentatori legano alla parola “chinàm” – gratuitamente. I giusti, dicono i maestri, fanno le loro richieste a titolo gratuito senza ricordare le proprie buone azioni come motivo per l’esaudimento della richiesta.

Di norma una persona che ha una richiesta da fare cerca di farla precedere dai propri meriti o i motivi che giustificano la richiesta. Moshè non si comporta in questa maniera.

“Mi merito questo perché….”

A quel punto è come se la richiesta fosse semplicemente un risarcimento di un debito. Questo potrebbe funzionare nelle interazioni tra uomini. Ma vi è qualcuno che possa dire che il Sig-re gli è debitore?

“Ho fatto tante mitzvòt, mi sono comportato bene nel lavoro” ecc… Per quanto siano grandi le opere della persona non costituiranno mai un “rimborso spese” nei confronti di ciò che la stessa persona ha ricevuto da D-o ossia la vita stessa.

Quindi neanche un Moshè, che di meriti ce li aveva, si sentiva in grado di menzionare quei meriti ricordandosi che in effetti nel rapporto tra uomo e D-o il debitore è sempre l’umano.

Adattato da rav Shalom Hazan dal commento del Kelì Yakàr

Le Giuste Priorità

2 luglio, 2010

Finalmente, dopo quarant’anni nel deserto, il popolo ebraico si trovava sulla soglia della Terra Promessa. Moshè era ancora la guida del popolo pronto ad attraversare il Giordano per conquistare e abitare la Terra.

È proprio a questo punto che un gruppo di persone – dalle tribù di Reuben e Gad – vennero da Moshè con una richiesta interessante.

“Noi abbiamo un’abbondanza di gregge”, dissero, “e la zona nella quale ci troviamo è molto adatta al pascolo. Vorremmo rimanere qui, oltre il Giordano, e non entrare nella futura Terra d’Israele”.

“Ma è possibile che i vostri fratelli andranno a combattere e voi rimarrete qui?” ribatté Moshè. “No”, dissero, “costruiremo dei rifugi per il bestiame e delle città per i nostri figli e poi ci affretteremo a prendere le armi e andare davanti ai nostri fratelli finché li porteremo al loro posto. Non torneremo alle nostre case finché tutti i figli d’Israele prenderanno possesso del loro territorio”.

Moshè accetta la proposta dicendo “…costruite città per i figli e rifugi per le bestie, e fate ciò che avete detto”. (Bemidbar 32, 1-42).

Si noti che nella sua risposta Moshè parla prima dei figli e poi del bestiame, mentre nella richiesta delle tribù l’ordine fu quello contrario.

Il grande commentatore Rashì scrive che queste tribù erano preoccupati più per i loro beni che per i loro figli e Moshè dovette impartire loro una lezione sulle priorità: prima la famiglia, poi i beni.

Certo che bisogna lavorare per poter portare avanti la famiglia, ma quando abbiamo questa Parashà davanti dobbiamo fermarci un attimo e pensare se abbiamo i valori al posto giusto e se le nostre priorità hanno un vero senso.

Gran parte del nostro tempo è preso dal poter arrivare al fine e non dal fine stesso, ma bisogna sempre ricordare che “la cosa migliore che si può spendere sui bambini non sono i soldi ma il tempo”.

Il sesto Rebbe di Lubavitch, Rabbi Yosef Yitzchak Schneersohn, disse che “la verra ricchezza non si misura con proprietà, azioni e così via. La vera ricchezza ebraica consiste nel essere benedetti con figli che camminano nelle vie del Sign-re.”

Ci auguriamo tutti, quindi, molta ricchezza…

Basato sulle opere del Rebbe di Lubavitch
Adattato da Rav Shalom Hazan

Il Tuo Serpente

18 giugno, 2010

Tra gli episodi raccontati nel libro di Bamidbar (Numeri) vi è quello del serpente di rame (21, 4-9).

Il popolo divenne impaziente nel viaggio ed iniziò a parlare contro D-o e contro Moshè. “Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per morire nel deserto? Poiché non c’è né pane né acqua…”

Il Sign-re mandò contro il popolo i serpentei che morsicavano il popolo e morì molta gente. A questo punto il popolo venne da Moshè e disse: “Abbiamo peccato, poiché abbiamo parlato conto il Sign-re e contre te. Prega il Sig-re affinché tolga da noi il serpente”. Moshè pregò per il popolo e la risposta fu:

“Fatti un serpente [di rame] e ponilo su una pertica. Chi sarà morsicato lo guarderà e guarirà”.

E così fu.

I commentatori spiegano l’importanza del simbolismo. Non è il serpente che porta la morte (nel caso del morso) o la vita (nel caso del serpente di rame), bensì il Sign-re. Rivolgendo gli occhi verso l’alto (il serpente sulla pertica) ci si ricorda dell’onnipresenze e dell’onnipotenza del Creatore e si cerca di tornare ad Esso.

Mi soffermerei un momento, però, su un’altra indicazione da trarre da questi versetti. La risposta di D-o a Moshè, “fatti un serpente” e non “fai un serpente” indica, secondo i Maestri, che le spese di quest’opera avrebbero dovuto essere sostenuti dallo stesso Moshè e non da fondi pubblici.

Queste serve per dare una lezione sul perdono.

“Se ti viene chiesto il perdono”, è scritto nel Talmud, “non essere crudele nel perdonare”.

Cosa vuol dire non essere crudele nel perdonare? Come se fosse scontato che comunque la persona perdona ma deve fare attenzione a non farlo con crudeltà.

Il senso è che spesso anche avendo subito un’offesa, essendo persone mature si riconosce che l’altro avrebbe potuto sbagliare e quando questi si accorge del proprio errore e chiede il perdono, lo si perdona.

Il problema è che spesso rimane un filo di rancore nel cuore anche dopo l’aver perdonato il prossimo. “Sì ti perdono ma non voglio più frequentarti”… Oppure “Accetto le tue scuse, ma non è più come prima”

Questo vuol dire perdonare con crudeltà! Il perdono dovrebbe essere assoluto.

Lezione che insegna il Sign-re a Moshè e quindi a tutti noi, dicendogli che la cura per un male che il popolo ha subito per avere sparlato contro Moshè stesso, verrà dalla sua tasca proprio per dimostrare che il suo perdono è completo e assoluto.

Da un discorso del Rebbe di Lubavitch
Chukat 5744-1984
Adattato da Rav Shalom Hazan

Orca Assassina e Vitello D’Oro

5 marzo, 2010

Lo Shemà

31 luglio, 2009
Cari amici,

Questa Shabbàt tradizionalmente è chiamato “Shabbàt Nachamù”. La parola Nachamù significa “siate consolati”, parola pronunciata e ripetuta dal profeta Isaia nel contesto della distruzione del 1° Tempio. Un messaggio di speranza e di redenzione che per tradizione si legge lo Shabbàt che segue il digiuno di Tishà beAv.

Vi auguro un buon weekend, buone vacanze e Shabbàt Shalom!

Rav Shalom Hazan

Lo Shemà
“Shemà Yisrael Ado-nai Eloh-énu Ado-nai Echàd.”

Questo versetto, conosciuto da ogni ebreo, ha come fonte la Parashà odierna, nella quale Moshè continua ad istruire e preparare il popolo d’Iisraele, ricordando loro anche gli eventi che li hanno portati a quel punto alla fine dei quarant’anni nel deserto trovandosi sulla soglia della Terra Santa.

Sono molti i commenti su questo versetto e la sua importanza. Cerchiamo di soddisfarci con alcuni di essi.

1) “Shemà Yisrael” significa “ascolta Israele”. Moshè parla al popolo dicendo loro di prestare attenzione alle parole importanti che sta per trasmetterli.

Vi è però un’allusione anche ad un’esperienza personale: Quando ogni ebreo, due volte al giorno, dice lo Shemà, in effetti è come se parlasse a se stesso, poiché il popolo si chiama Yisrael. Ognuno di noi dice quindi a se stesso, “Ascolta! D-o è nostro ed è unico”…

2) I caratteri scritti sul Séfer, il rotolo della Torà, hanno tre misure. La misura standard, le lettere di dimensione minore (come la Alef della prima parola del libro di Vayikrà-Levitico) e lettere di dimensione maggiore. Due di quest’ultime si trovano nel nostre versetto dello Shemà. La lettera ‘Ayin, l’ultima della parola Shemà, e la lettera Dalet, l’ultima della parola Echàd hanno dimensioni maggiori rispetto alle altre lettere.

Uno degli insegnamenti in riguardo: Messe insieme queste due lettere formano la parola ‘Ed, che significa “testimone”.

Il significato è doppio. Da una lato, leggere lo Shemà è una forma di testimonianza circa la presenza e l’unicità di D-o. Dall’altro canto, l’ebreo stesso, la sua esistenza, è un miracolo che testimonia la grandezza di D-o.

Il profeta Isaia, infatti, profetizza dicendo “Voi siete i Miei testimoni…” (Isaia 43, 10). Quando ci si chiede “qual’è la prova della Sua esistenza?”, basta guardare il Suo popolo, che nonostante la storia abbia cercato di annientarlo, rimane ancora in esistenza.

3) Le stesse due lettere, invertendo l’ordine, formano la parola Dà – “sappi”. Questo potrebbe alludere alla mitzvà di conoscere il Creatore (Devarìm 4, 39, vedi anche Cronache I 28, 9).

Il senso è che a parte l’obbligo di credere in D-o, ossia il concetto della fede, nell’ebraismo siamo anche portati a studiarlo, dalle fonti giuste, e quindi di “conoscerlo” per quanto questo sia possibile.

La differenza tra la sola fede e quella accompagnata dallo studio approfondito si esprime anche nel nostro comportamento.

Non esiste in realtà il non credente, ma la fede spesso rimane “in sospeso” in un vuoto tra l’anima e la persona, non sempre, quindi, si esprime nelle azioni.

Solo quando è accompagnata dallo studio e la conoscenza, la fede fiorisce e produce buoni frutti.

di Rav Shalom Hazan

Io Mi Chiamo, Io Sono

6 marzo, 2009

Fin dalla sua nascita, il nome di Moshè appare in ogni parashà della Torà (eccetto l’ultimo libro, Deuteronomio, nel quale Mosè parla in prima persona). Una eccezione è la parashà odierna, quella di Tetzavè, nella quale non troviamo il suo nome.

Rabbì Yaakov ben Asher, noto come il Ba’al HaTurìm, non trascura questa perplessità nel suo commento sulla Torà e spiega che tale mancanza risulta da una richiesta fatta da Moshè stesso.

Quando il popolo d’Israele peccò con il vitello d’oro, il Sign-re volle punire il popolo nel modo più estremo, distruggendolo e creandone uno nuovo dalla progenia di Moshè.

Per Moshè questo era impensabile. “Se non li perdoni, disse, cancellami dal Tuo libro!” (Esodo 32, 32).

Il Ba’al HaTurìm ci ricorda l’insegnamento del Talmùd (Makòt 11a) secondo il quale una parola di un giusto, anche se espressa sotto condizione, viene comunque mantenuta. Nonostante la condizione (“se non li perdoni…”) non fu realizzata e D-o perdonò il popolo, le parole del giusto Moshè si sono comunque realizzate, seppure in minima misura, ed il suo nome è stato cancellato da una Parashà.

Un’altra spiegazione è offerta da Rabbì Nachùm Twersky di Cernobil (nel suo Me’or Enayim): La mancanza del nome di Moshè allude alla sua scomparsa che avvenne nel settimo giorno del mese di Adàr che cade sempre in prossimità della Parashà di Tetzavè.

Il fatto che il nome di Moshè manca nella parashà non rappresenta una debolezza ma una forza. La parashà apre dicendo “e tu comanderai il popolo d’Israele…” Chiaramente, questo “tu” si riferisce a Moshè stesso e così la parashà continua ad elencare le mitzvòt svolte da Moshè senza chiamarlo per nome.

Il nome rappresenta un’aspetto esteriore della persona essendo uno strumento per facilitare i rapporti con gli altri. Proprio perché Moshè era disposto a perdere tutto per il bene di Israele, viene messo in evidenza non con il suo nome, ma con la sua presenza e quindi con la sua essenza.

Questo è evidente dalle parole “e tu” che aprono la nostra Parashà. Si parla non delle sue manifestazioni esterne, ma del “tu” più profondo che trascende il solo nome.

rav Shalom Hazan

Chabad-Lubavitch di Monteverde

Dal Nilo al Hudson…

23 gennaio, 2009

Il racconto dell’esodo degli ebrei dall’Egitto sembra essere accompagnato da un fiume. Moshè incontra il faraone quanto costui si reca al fiume la mattina, alcune piaghe colpiscono il fiume o derivano da esso, e così via.

In realtà gran parte della cultura egiziana dell’epoca era centrata sul fiume.

Questo per il semplice fatto che il sostentamento – l’acqua e l’irrigazione – veniva dal fiume. Con il tempo il fiume stesso diventò oggetto di culto ed era proprio il contrastare questi’dea che fu uno degli obbiettivi delle piaghe; quello di fare capire al faraone e agli egiziani che vi è solo un D-o.

Il faraone, da parte sua, voleva invece che i bimbi ebrei venissero gettati nel fiume. A parte la brutalità di questo atto vi è anche un male più subdolo: “Fate vivere le femmine” disse il faraone alle levatrici ebree, una frase che sembra benevola ma nasconde un intento non meno pericoloso della prima parte, e cioè che lo stesso fiume – culturale – che uccide i maschi fà vivere le femmine. Ossia voleva che venissero educate con la cultura e il culto del fiume e che non siano più in grado di mantenere un’identità distinta, quella loro.

Ebbene, come non pensare al miracoloso atterraggio sul fiume Hudson nel cuore di New York?

Come disse il Ba’al Shem Tov, ogni cosa che una persona vede o sente può essere usufruita per trarrne una lezione nel proprio servizio divino.
Atterrare su un fiume sembrava impossibile ma la cosa si è verificata.

Pensiamo a tutte le cose che consideriamo “impossibili” e vediamo se possiamo noi fare qualche miracolo…

Shabbàt Shalom!
Rav Shalom Hazan