Archive for the ‘Commenti sulla Torà’ Category

L’ascensore Infinito

30 marzo, 2012
L’ascensore InfinitoLa Parashà di questa settimana continua a specificare nei minimi dettagli le leggi riguardanti le offerte di sacrifici nel Santuario. Il maestro Don Yitzchak Abarbanel (Lisbona 1437, Venezia 1508) ne approfondisce il significato generale che rimane eternamente rilevante.

Secondo il Talmud il beneficio spirituale che avveniva tramite il culto dei sacrifici si ottiene oggi attraverso il culto della Tefillà, la preghiera. Infatti, le cadenze temporali delle tefillòt seguono quelle dei sacrifici. Abarbanel cita il Kuzari (Rabbì Yehudà HaLevì – Spagna c. 1080, Israele 1171) il quale descrive l’effetto desiderato della preghiera attraverso una parabola.
Quando una persona si mette a tavola la sua intenzione non è quella di soddisfare meramente il suo fame immediato. La persona vorrebbe nutrirsi con il pasto per poter evitare la fame fino al prossimo pasto. La Tefillà dovrebbe avere una funzione simile.
Quando si prega l’intento non è quello di legarci al Sign-re solamente durante il momento della preghiera. Ci si vuole assicurare che anche dopo la conclusione della Tefillà si continua a sentire l’amore, la vicinanza e il collegamento con D-o.
Secondo l’Abarbanel questo è il senso più profondo del verso in cui è detto “Questa è la legge del olocausto [il sacrificio arso interamente sull’Altare, NDR], rimarrà sull’Altare tutta la notte sino al mattino”.
Il termine “olocausto” nell’ebraico originale è “Olà” ovvero “[il sacrifico che] Sale in Alto”. Questo termine descrive anche la nostra neshamà, l’anima che si trova al nostro interno e che è costantemente presa dal desiderio di “salire” aldisopra del mondano ed unirsi con la propria Fonte.
La sera, il mattino e il pomeriggio abbiamo l’opportunità di pregare. Ma lo scopo è di perpetuare quei momenti facendo sì che permeino il resto della giornata.
E’ per questo che il verso dice “…tutta la notte sino al mattino”. Purché la Tefillà serale porti al giusto risultato, il suo impatto deve essere sentito tutta la notte, sino al mattino.
di Rav Eli Rosenfeld (Lisbona)

I Colori delle Emozioni

24 febbraio, 2012

I Colori delle Emozioni

Farai la copertura del Tabernacolo di dieci tende di lino ritorto, di [fili di lana] turchese, di porpora e scarlatto… (Esodo 26:1)

I quattro fili menzionati nel verso alludono a quattro elementi basilari nel nostro rapporto emotivo con D-o.

Il scarlatto allude al fuoco. Il fuoco della nostra anima è l’amore ardente del Sig-nre che è il risultato della meditazione sulla Sua infinità trascendente. Nel riconoscere la realtà della trascendenza Divina, fino al punto che è solo Lui la vera realtà, veniamo avvolti da un passionato e fuocoso desiderio di evadere dai limiti del mondo per conoscerLo meglio e unirsi a Lui. Questo è un sentimento legato all’amore, il volersi avvicinare.

Turchese è il colore del cielo ed allude alla nostra esperienza nell’apprezzare la Sua maestosità. Anche qui si mette a fuoco la qualità trascendente di D-o, ma si punta più sull’aspetto sull’irrilevanza nostra e dell’intero creato dinanzi alla Sua grandezza. Questo ci riempie di un sentimento di riverenza e rispettoso timore.

La porpora è un amalgamare del turchese e il rosso, dell’amore e il timore. E’ un’allusione quindi alla misericordia, un sentimento composto da sentimenti di amore e rabbia: amore dell’ideale e rabbia nel non vederlo messo in atto. In questo contesto specifico, la misericordia è risentita nei confronti della nostra stessa anima Divina, che si trova spiritualmente molto distante dalla propria fonte eccelsa.

Il lino è bianco ed allude all’amore essenziale dell’anima nei confronti di D-o, un amore che trascende la razionalità e che è la base di tutto il resto. Nello stesso modo che il bianco è il sottofondo sul quale si possono distinguere tutti gli altri colori, questo amore è fondamentale per tutte le altre esperienze spirituali dell’anima. La forza di questo amore si esprime però anche nel dare la possibilità alla persona di sacrificare il proprio io per l’onore di D-o, in quanto esprime un legame incontrovertibile con Lui.

Tratto dal Chumash edizione Kehot

L’Idolatria Subdola

10 febbraio, 2012
Per noi moderni “illuminati” l’antico mondo pagano può sembrare un mondo oscuro privo di autentica intellettualità.

In realtà, tuttavia, i sacerdoti idolatri non erano degli sciocchi ma degli intellettuali che passavano la vita ad approfondire la loro conoscenza sulle sfere elevate dell’esistenza.

Uno dei sacerdoti di maggior spicco dell’epoca era Yitrò, suocero di Moshé. Di lui fu detto che non aveva trascurato alcun culto idolatro; li prestò tutti, dando prova di una mentalità sorpredentemente aperta.

L’abbandono dell’idolatria da parte sua, accompagnato dal viaggio nel deserto per prestare culto a D-o assieme al popolo ebraico, fu una scelta ben pensata, frutto di una decisione presa con la massima serietà.
*
La Kabalà insegna che esiste un elemento sottile di “idolatria” in ogni mitzvà compiuta con un motivo ulteriore alla mitzvà stessa.

L”idolatra vero e proprio serve un’entità oltre che quella di D-o e la mitzvà eseguita senza la giusta intenzione è un atto che ha come motivazione qualcosa che va oltre la volontà di D-o.

È chiaro che il paragone è molto sottile: anche una mitzvà fatta per le ragioni sbagliate o come frutto dell’abitudine è sempre una mitzvà; un’opera positiva.

Il fatto rimane, però, che il motivo ulteriore dà alla mitzvà un pizzico di “sapore” che potremmo definire esterno al senso vero della mitzvà.

Ciò non significa che si dovrebbe evitare di fare mitzvòt nel caso in cui l’intenzione non sia completamente pura. Siamo sempre tenuti ad osservare le mitzvòt – anche senza l’intenzione perfetta – poiché è comunque un primo passo verso l’esecuzione nella maniera ideale (Talmùd, Pesachìm 50b).
*
Per riconoscere e servire D-o, Yitrò impiegò lo stesso intelletto che in precedenza aveva adoperato per studiare e servire altri dei. Questo atto di teshuvà trasformò anche il suo passato in positivo perché ora quello stesso intelletto con tutto ciò che era il suo passato, serviva il Sign-re.

Analogamente, quando si esegue una mitzvà con l’intenzione pura anche le mitzvòt precedenti vengono liberate di quel “sapore di idolatria” per pregnarsi completamente di santità.

Basato sulle opere del Rebbe di Lubavitch

Siamo Arrivati Alla Frutta

2 febbraio, 2012

In occasione di Tu Bishevàt, il Capodanno degli Alberi

frutta
foto: Wikipedia

…Il Sign-re tuo D-o di porta ad una terra fertile… Una terra di grano, orzo, uva, fichi e melograni; una terra di olive da olio e miele [da datteri]. (Deuteronomio 8:8)

I nostri maestri raccontano che in origine, prima del peccato commesso da Adamo ed Eva, tutti gli alberi producevano un frutto e che lo stesso avverrà durante l’era Messianica.

La Torà allude al legame tra l’uomo e l’albero (Deuteronomio 20:19) e il produrre un frutto rappresenta il successo maggiore dell’albero. Tra tutte le specie di frutta, ce ne sono sette che formano la corona del raccolto botanico e quindi anche umano.

Il 15° giorno del mese ebraico di Shevàt è stato designato dal calendario ebraico come “capodanno degli alberi”. Questo è il giorno in cui si usa festeggiare gli alberi del mondo creato da D-o, e l’albero all’interno di noi stessi, assaggiando queste sette specie che corrispondono a componenti e modalità varie dell’esperienza umana.

I maestri della Kabbalà ci insegnano che ognuno di noi ha non una ma due anime. Un’anima “animale” che rappresenta il nostro istinto naturale con al centro il nostro ego e una seconda anima Divina che rappresenta il nostro desiderio di trascendenza, la volontà di liberarsi dall’io e rapportarsi a ciò che è più grande ed elevato di noi stessi.

Come indicato dal nome, l’anima animale è quella parte di noi che è comune a tutti gli esseri viventi: l’istinto di sopravvivere e di perpetuarsi. L’uomo però è un animale più sofisticato. Vi sono delle qualità che sono uniche del genere umano, le qualità che derivano dall’anima Divina. Il punto in cui andiamo oltre l’io e le sue esigenze (come potrò sopravvivere? Come potrò ottenere del nutrimento, un riparo, denaro, potere, conoscenza, soddisfazione?) per arrivare ad una prospettiva aldilà di quella egoistica (Perché sono qui? A che cosa dovrei essere utile?). Questo è il punto in cui la persona cessa di essere uno degli animali nel mondo di D-o ed inizia a riconoscere la propria unicità in quanto essere umano.

Con questo non si intende dire che il lato animale dell’uomo debba essere respinto in favore del lato Divino. Queste sono due anime, entrambe delle quali sono indispensabili per vivere una vita colma di significato. Nello stesso momento in cui la persona stimola il proprio lato Divino per trascendere ciò che appartiene meramente al mondo animale, continua a sviluppare e a rendere più raffinato il lato animale, imparando a coltivare gli aspetti costruttivi dell’ego (per esempio l’autostima positiva, il coraggio, l’ambizione, la perseveranza…) e al tempo stesso cercando di scartare gli aspetti profani e presuntuosi dell’ego.

La Base
Nella Torà  il grano è considerato il pilastro della dieta umana, mentre l’orzo è menzionato come il nutrimento tipico dell’animale (vedasi Salmi 104:15 per esempio). Quindi il grano metaforicamente rappresenterebbe lo sforzo della persona diretto a nutrire gli aspetti di sé che sono specifici all’essere umano quindi le nostre ambizioni spirituali che sono l’essenza della nostra umanità. L’orzo rappresenta invece il nutrire e quindi far sviluppare l’anima animale cosa che non è meno cruciale importante dello sviluppo della parte Divina in noi.

Il grano e l’orzo, le specie di frumento presenti nella lista delle Sette Specie, rappresentano la base del nostro DNA spirituale. Di seguito a queste vi sono cinque frutti che rappresentano i contorni e i dessert del nostro menù spirituale aggiungendo il gusto e il sapore al nostro fine base, quello di crescere attraverso lo sviluppo di entrambe le nostre anime.

La Gioia
Il primo dei frutti è l’uva che è caratterizzato dalla gioia. “Il vino rende felici D-o e uomini” (Giudici 9:13).

Gioia è sinonimo di apertura e rivelazione. Una persona accesa dalla gioia ha in sé le stesse caratteristiche base di una persona in uno stato normale: potrebbe avere la stesa conoscenza e intelligenza, amori, odii, voleri e desideri. In uno stato di gioia il tutto è più pronunciato e acuto. La mente è più affilata, gli amori più profondi, i desideri più aggressivi. Dei sentimenti che di norma sono dimostrati solo fino ad un certo punto, nel momento di gioia vengono rivelati nella loro forma completa. Come dice il Talmud “quando entra il vino escono i segreti”.

Una vita senza gioia potrebbe essere completa in tutti i sensi ma rimane superficiale e priva di reale profondità. C’è tutto ma non lo si vede. Sia l’anima Divina che quella animale contengono delle vasti riserve di sentimento e profondità che possono rimanere per sempre celate se non stimolate a venire all’aperto.

L’uva rappresenta questo elemento della nostra vita: la gioia che fa scatenare la potenzialità e aggiunge profondità ed intensità a tutto ciò che facciamo.

Il Coinvolgimento

L’essere gioioisi non garantisce comunque il massimo coinvolgimento. L’essere coinvolti vuol dire non solo fare la cosa in maniera corretta ma sentirla ed investire sé stessi in essa. Vuol dire che per il meno o per il male la cosa avrà un effetto sulla persona.

Il fico, quarto sulla lista, secondo molte fonti è anche l’albero della conoscenza del bene e del male che è inizialmente era vietato ad Adamo ed Eva e il frutto con il quale hanno commesso il primo peccato della storia. Nelle fonti Chassidiche si spiega che la conoscenza (da’at) significa un coinvolgimento intimo con il conosciuto (come nel verso “e Adamo conobbe la sua moglie”). Il peccato di Adamo deriva dal rifiuto di fare pace con l’idea che bisogna mantenere le distanze da alcune cose: voleva conoscere intimamente tutti gli aspetti della creazione ed essere coinvolto con tutte le creature di D-o. Incluso il male.

Il fico di Adamo era una delle forze più distruttive della storia. Ma il lato positivo è ancora più potente ed è rappresentato dal nostro coinvolgimento profondo negli aspetti positivi della nostra vita. L’essere uno con il bene che mettiamo in atto.

L’Atto
“Le tue labbra sono come un filo di lana porpora” scrive il re Salomone nel celebrare l’amore tra lo Sposo Divino e la Sua sposa Israel, la tua tempia è come un pezzo di melagrana nei tuoi boccoli” (Cantico dei Cantici 4:3). Secondo l’interpretazione talmudica, che gioca anche sul doppio significato delle parole originali, la metafora della melagrana esprime il concetto che “anche i vuoti del tuo popolo sono pieni di buone azioni come la melagrana è ripiena di semi”.

La melagrana cerca di risolvere il paradosso di una persona che potrebbe essere “vuota” ma al tempo stesso piena di buone azioni.

Il frutto è pieno di semi ma ognuno di essi è avvolto in una propria pellicola e polpa, distinta da tutti gli altri semi. In maniera simile la persona potrebbe avere molti lati positivi e molte azioni positivi ma tutti questi atti sono isolati nella propria “pellicola” senza effettuare una differenza complessiva in positivo sulla persona. La persona ha delle buone azioni, ma queste non lo definiscono.

La melagrana è quindi l’antitesi del fico. E’ una forma d’ipocrisia spirituale.

La Lotta
Per noi esseri umani la vita è sinonimo di difficoltà. Lottiamo per trovare la nostra identità, per trovare un partner, per preservare i nostri rapporti, per crescere i nostri figli, per mantenere un rapporto con questi da adulti, per mantenerci, ecc. ecc., e al di sotto di questa superficie vi è la lotta perpetua tra il nostro aspetto animale e quello Divino, tra l’io rivolto a sé stesso e il desiderio di trascendere sé stessi e toccare il Divino.

L’olivo in noi è la parte che apprezza la lotta. Le olive danno l’olio solo quando sono schiacciate e pressate e anche l’uomo da il meglio di sé quando è pressato tra le pietre della vita.

Perfezione
Come il fico è contrapposto dalla melagrana, l’olivo è contrapposto dal dattero, il settimo dei frutti, che rappresenta la pace, la tranquillità e la perfezione. Mentre è vero che nell’essere pressati viene fuori il meglio di noi è ugualmente vero che alcune delle nostre capacità vengono a galla solamente quando siamo in  pace con noi stessi ossia quando abbiamo raggiunto un equilibrio e l’armonia tra le varie componenti delle nostre anime.

E’ per questo che il salmo paragona il giusto (lo Zaddìk) alla palma da dattero (92:13). Tuttavia il concetto esiste in ogni persona. Anche nei momenti di lotta più forte, si possono trovare dei momenti di tranquillità al cuore dell’anima così come nei momenti di tranquillità si può sempre trovare la sfida che ci provocherà a crescere maggiormente.


Basato sulle opere del Rebbe di Lubavitch, adattato da Yanki Tauber per Meaninfullife.com, in italiano da Shalom Hazan

Sarò Quel che Sarò

13 gennaio, 2012

“Sarò” (Esodo 3:14)

Sarò con voi nella vostra difficoltà odierna e sarò con voi nei futuri esilii e persecuzioni. (Rashì in loco)

Quando il Sign-re apparse a Moshè nel roveto ardente e gli diede l’incarico di portare il popolo ebraico fuori dal Egitto, Moshè disse: Ecco che andrò dai figli di Israel e dirò loro “Il D-o dei vostri padri mi ha mandato da voi” e mi diranno: “Qual è il Suo nome?”, cosa dirò loro?. D-o disse a Moshè: “Ehye asher ehye” (sarò colui che sarò)… così dirai ai figli di Israel: “Ehyè mi ha mandato da voi!”.

Un D-o Anonimo?

Il nominare qualcosa è un modo di descriverlo e di definirlo. D-o, che è infinito e indescrivibile, non può realmente essere nominato. In realtà il Sign-re non ha un nome, bensì delle descrizioni che corrispondono a comportamenti diversi che hanno diversi effetti sulla nostra vita.

Nelle parole del Midrash: “Il Sign-re disse a Moshè: Vuoi conoscere il mio nome? Io sono chiamato secondo le Mie azioni. Potrei essere nominato E-l Shad-dai, o Zeva-òt, o Eloh-im, o Ha-Va-Ya-H (il tetragramma). Mentre giudico il creato, sono nominato Elo-him. Quando combatto contro i malvagi mi chiamo Zeva-ot. Quando sono tollerante delle pecche dell’uomo sono nominato E-l Shad-dai. Quando mi comporto con compassione e misericordia mi chiamo Ha-Va-Ya-H…”

In questo si trova l’aspetto più profondo della domanda che Moshè si aspettava di sentire da parte del popolo. Come si chiama? avrebbero sicuramente chiesto. Ossia, in che maniera si sta comportando in questi tempi? Tu, Moshè, dici che D-o ha visto la nostra sofferenza in Egitto, ha udito il nostro richiamo e conosce il nostro dolore e che quindi ha mandato te per redimerci. Dove è stato finora? Dove è stato per gli ottantasei anni durante i quali siamo stati sottomessi dalla frusta, mentre i neonati vengono strappati dalle mani delle madri e gettati nel Nilo. Che nomne assume ora D-o, dopo ottantasei anni in cui sembra non aver avuto alcun nome data la sua apparente assenza dalla nostra vita?

Divino ma non Sacro

Come abbiamo spiegato, ognuno dei nomi divini rappresenta l’attributo con il quale il Sig-re si rapporta alla creazione. Elo-him rappresenta l’assumere una posizione di giustizia, Ha-Va-Ya-H rappresenta un atteggiamento di compassione, e così via. E-heyè (“Sarò”), il nome con il quale D-o si identifica in questo caso a Moshè, rappresenta l’assumere, da parte di D-o il “Essere” e la “Esistenza”.

E’ per questo che tra le autorità halakhiche vi è discussione riguardo a questo nome, se è da considerare uno dei sette nomi sacri che non possono essere cancellati. La legge della Torà proibisce il cancellare i nomi di D-o perché la carta stessa, per esempio, assume un certo aspetto di santità essendo rappresentativo di un qualcosa di Divino.

Ci sono molti nomi e aggettivi che descrivono il coinvolgimento di D-o nella creazione, vi sono però sette nomi specifici alle quali si applica strettamente questa halakhà. Ad ogni modo, nonostante molti kabalisti considerano il nome “Eh-yè” il più elevato di tutti, non è necessariamente inclusa nella “lista dei sette nomi” secondo molte versioni del Talmud e opere di Halakhà. Effettivamente la conclusione dei maestri della Halakhà è che questo nome non rientra nella lista dei sette nomi incancellabili. (Shulchan Aruch YD 276:9)

Come si spiega questo paradosso? Potremmo capirlo meglio approfondendo il significato del termine “sacro” o “santità”. Cosa rende una cosa sacra? Il sacro, in ebraico Kadosh, vuol dire distinto e trascendente. D-o è sacro in quanto trascende la nostra realtà mondana. Shabbat è un giorno sacro perché è un momento distinto dalla mondanità di tutti i giorni. Un Séfer Torà o un paio di Tefillìn sono sacri perché sono degli oggetti che trascendono la loro materialità per servire un fine Divino.

Lo stesso concetto si applica ai sette nomi divini: ognuno di essi descrive un’attività Divina che va oltre la normalità materiale e mondano, ovvero rappresenta un intervento del divino all’interno della nostra realtà. D-o come giudice, come salvatore, come combattente, ecc. D’altro canto, il nome Ehe-ye (“Sarò”) rappresenta D-o nel Suo “essere” e nel Suo “esistere”. D-o come l’essenza della realtà.

Se la santità rappresenta la trascendenza di D-o, l’essenza esistenziale di D-o rappresenta una dimensione del Divino che pervade tutto ciò che esiste trascendondolo al tempo stesso e quindi rapportandosi in maniera uguale al “sacro” e al “profano”.

La risposta

Questa fu la risposta Divina alla domanda “Come si chiama?”.

“Dì ai figli di Israel, disse il Sign-re a Moshè, che il mio nome è Ehe-ye. Dove ero per tutto questo tempo? Con voi. Io sono esistenza, Io sono realtà. Mi trovo nel sospiro dello schiavo colpito, nel pianto di una madre in lutto, nel sangue di un bambino ucciso. Alcune situazione devono esserci anche nel dolore, ma non progetto queste cose da un lontano cielo che trascende il vostro dolore. Sono lì, insieme a voi, nella vostra sofferenza.

“Se non mi potete vedere non è perché sono etereo ma perché sono talmente parte della realtà”.

In altre parole, D-o è presente non solo in ciò che possiamo definire Sacro (nel dire questo porremmo un limite davanti ad Esso) ma anche in ciò che a noi sembra essere la realtà banale e mondana.

basato sulle opere del Rebbe di Lubavitch, adattato da Yanki Tauber per meaningfullife.com.

Vedere, Udire, Riconoscere

6 gennaio, 2012
Prima, una barzelletta. Il cantore di un tempio vi entra e vede il rabbino che si inchina davanti all’Arca Santa in un’estasi spirituale e proclama “Oh D-o, io non sono nulla, sono un niente assoluto davanti a Te!”
Il cantore non viene a meno ed esclama anch’esso il suo essere nullo dinanzi al Sign-re.
A quel punto entra lo shammash e preso dal contesto si esprime in maniera simile.
“Mah” dice il rabbino al cantore, “guarda un po’ chi pensa di essere un niente”…

La vita del terzo e ultimo patriarca giunge alla sua fine nella nostra Parashà, in corrispondenza alla conclusione del primo libro dello Torà. Prima di morire Yaacov benedice ognuno dei figli con un messaggio particolare.

Secondo gli insegnamenti dei maestri, in particolare nell’ambito mistico, i messaggi trasmessi da Yaacov quel giorno sono rivolti, in realtà, a tutti i suoi discendenti in perpetuo. Ogni anima contiene tutte e dodici le caratterestiche specifiche di ognuna delle tribù, caratteristiche attraverso le quali la persona si rapporta con il Sign-re.

Questi messaggi sono allusi anche nei nomi dei dodici figli di Yaacov. Di seguito solamente pochi esempi.

La parola Reuven, il nome del primo figlio di Yaacov, è legato alla vista (ראובן – ראיה) mentre Shimòn è legato all’udito (שמעון – שמיעה).

Reuven come concetto si riferisce alla capacità dell’anima di vivere un legame con il Sign-re non solo al livello intellettuale ma anche “visivo”. Cosa vuol dire? Semplicemente che l’anima riconosce la realtà Divina come se fosse un fatto o un evento testimoniato da una persona con i propri occhi. La vista ha un effetto talmente forte su colui che vede che non potrà essere convinto da prove o idee contrarie a ciò che ha visto. Non rimangono dubbi.

L’anima alimenta la propria “visione” del Divino attraverso la meditazione profonda che suscita in essa un profondo amore verso D-o (il concetto si esprime anche nel mondo materiale in quanto l’amore e l’attrazione è reso possibile dalla vista).

Il concetto di Reuven è legato alla prima parte dello Shemà (Veahavtà) in cui si parla dell’amore che si prova nei confronti di D-o.

Il concetto di Shimòn, invece, si riferisce al legame intellettuale, simile a ciò che potrebbe essere udito da lontano. La persona che sente raccontare un evento da una fonte attendibile ci potrebbe credere, ma non è comunque paragonabile a colui che lo ha visto.

Un’esperienza di questo tipo produce rispetto e timore, non vicinanza ed amore. Udire, comprendere, la grandezza del Sign-re fa sì che la persona si senta piccola, quasi con un istinto di “fare un passo indietro”.

Questo percorso dell’anima è legato al secondo passaggio dello Shemà, intitolato “Vehayà…Shamo’a” Ossia “Quando darai ascolto ai comandamenti…” ed è legato alla “yirà” il timore, contrapposto all’amore del primo paragrafo.

Da qui arriviamo a Levì, terzo dei figli, il quale nome connota il legame e l’attaccamento e si riferisce, in questo contesto, all’attaccamento al Sign-re attraverso lo studio della Torà che è la saggezza Divina. (Perché proprio attraverso lo studio si considera l’attaccamento maggiore al Creatore? C’è un motivo specifico ma preferisco non allungare troppo nella newsletter; scrivimi se ti interessa e te lo mando).

Questa terza fase è legata al brano che segue lo Shemà, Emet Veiazìv, che parla della autenticità della Torà.

I primi tre figli rappresentano con queste idee le tre colonne su cui il mondo si mantiene (Avot 1:2): Torà, Tefillà e Azioni di Beneficenza.

Reuven rappresenta la colonna della Beneficenza. Poiché un autentico amore del Creatore produce un amore per le sue creature e un desiderio di effettuare del bene.

Shimon rappresenta la preghiera, ossia lo sforzo di chi è lontano di elevarsi ed avvicinarsi al Divino.

Levi rappresenta la colonna della Torà.

Una volta l’anima ha potuto avere queste tre esperienze (che ormai abbiamo capito non si escludono l’un l’altra) è pronta ad affrontare il concetto di Yehudà – il nome del quarto fratello. Yehudà dalla parola hoda’à, riconoscimento, ammettere. Nell’ammettere la persona si sottomette totalmente, in una trasparenza silenziosa. Questa è l’espressione della Amidà, in cui la persona silenziosamente si rivolge ad Hashem come un serve dinanzi al re, annullando completamente il proprio io.

Una delle lezioni da trarre da ciò è che non è semplice annullarsi. E’ solo dopo aver studiato profondamente, amato e sentito il timore di Hashem che la persona può realmente annullare il proprio ego.

Basato su un discorso (molto più lungo e dettagliato di quanto è stato possibile includere qui) del Rebbe Shneur Zalman, fondatore di Chabad. Pubblicato in Torah Ohr.

Adattato da Shalom Hazan e Yossi Marcus

Yossef ed I Fratelli

16 dicembre, 2011
Sprazzi di Saggezza…

Acqua e Scorpioni
La gelosia tra i figli di Ya’akov e il loro fratello Yossef degenerò fino al punto che decisero di liberarsi del fratello, gettandolo infine in un pozzo. “E il pozzo era vuoto – descrive la Torà – in esso non vi era dell’acqua”.

Se era vuoto, si chiedono i maestri del Talmud, è evidente che non vi era dell’acqua. Perché la ripetizione?

Per insegnarci che “Dell’acqua non vi era, ma vi erano serpenti e scorpioni…”

Da qui il messaggio anche a noi: Se mancasse l’acqua della vita ebraica, la Torà, il risultato non è un semplice vuoto; il vuoto sarebbe comunque riempito ma da elementi poco favorevoli… Soluzione? Ovviamente, cerchiamo di tenere il “pozzo” pieno…

Yossef ed I Fratelli

La storia si ripete all’interno di noi

Il conflitto tra Yossef e i suoi fratelli ed in maniera particolare tra Yossef e Yehudà, continuerà a segnare l’intera storia di Israele.

Il conflitto ha le sue radici nei matrimoni di Yaakov con Rachel e con Leah. La preferenza del marito era quella di sposare Rachel, il suo primo amore e colei che sarebbe considerata la moglie “primaria”. Ma fu Leah che sposò per prima e che fu la prima e fare nascere i suoi figli (nonché ad essere la madre della metà dei dodici figli di Yaakov). Tutti e sei i figli di Leah nacquero prima della nascita di Yossef, il primogenito di Rachel.

In quanto primogenito di Yaakov, sarebbe previsto che Reuven fosse il futuro leader del popolo. Dopo che inciampa nel peccato i suoi diritti di primogenitura saranno trasferiti a tre dei fratelli: Il sacerdozio a Levi (da cui discenderanno Moshe ed Aharon), il regno a Yehudà e il diritto di “primogenitura” (ossia di ereditare una porzione doppia dal padre) passa a Yossef. Infatti i discendenti di Yossef sono rappresentati da due delle tribù di Israele, Menashè ed Efrayim, ognuno dei quali riceveranno un territorio nella terra di Israel.

Yaakov trasferisce il suo amore verso Rachel al figlio Yossef, dimostrando preferenze nei suoi confronti (così come fu Rachel la moglie preferita). La gelosia naturale dei fratelli è alimentata dai sogni in cui Yossef prevede la sua posizione di importanza e di leadership.

Questo per i figli di Leah è da evitare assolutamente e quindi Shimon e Levi progettano di ucciderlo, Yehudà riesce a convincerli a venderlo come schiavo.

La loro vittoria è però prematura. Non passa molto tempo e si trovano in Egitto alle grazie di un vicerè severo che a loro insaputa non è altro che il fratello “disperso”. I fratelli si prostrarono di fronte a Yossef, confermando i suoi sogni anche senza accorgersene. Yehudà cerca di scontrarsi con il vicerè ma si trova a “perdere la partita”. Poi si racconta la scena toccante in cui Yossef si rivela ai fratelli e si riconciliano.

Ora Yossef è il leader incontestato dei fratelli e della giovane nazione. è lui il protettore e la loro fonte di sostentamento. Anche Yaakov gli si inchina.

Quando il popolo emerge dall’esilio egizio, è sotto la guida di Moshe ed Aharon, entrambi dalla tribù di Levi (figlio di Leah). E’ Yehoshua (Giosuè), discendente di Yossef, che guida la conquista della Terra Santa e prende il posto di Moshe. Trascorsa qualche generazione un altro discendente di Yossef, Ghideon, libera il popolo ebraico da un regno esterno e rimane alla loro guida. Per un periodo di oltre tre secoli, il Santuario, il centro della vita spirituale ebraica, si trovava a Shilò, nel territorio di Yossef. Quando il popolo chiede di nominare un monarca, sarà scelto per il trono un altro nipote di Rachel, Saul della tribù di Biniamin.

Dopo secoli dell’ascesa della stella di Yossef, la situazione cambia. David, nipote di Yehudà, è nominato re dal profeta e le sue difficoltà con Saul sembrano ripetere l’antica rivalità tra Leah e Rachel sulla guida di Israel.

Davìd regna sulla città di Hevron per sette anni mentre Saul è ancora riconosciuto come re del Nord. Poi la sovranità di David è riconosciuta da tutto il popolo di Israel. Davìd fa di Gerusalemme la propria capitale. Suo figlio, Shelomò, costruisce il Tempio sulla confine tra il territorio di Yehudà e quello di Biniamin. La spaccatura nel popolo sembra essere guarita, questa volta con la leadership fermamente nelle mani di Yehudà (Leah).

Questa situazione non sopravvive a lungo. Di seguito alla morte di Shelomò, Yerov’am, un discendente di Yossef, guida la rivolta contro la Casa di David. Altre tribù, anche quelle che discendono da Leah, si uniscono ad esso per rinnegare la leadership di Yehudà e la casa di David. Per quasi due secoli e mezzo la Terra Santa rimane divisa in due regni: Il Regno di Israel a nord, formato da dieci tribu sotto una guida “Yosseffina” e il regno di Yehudà al Sud (a cui rimane fedele la tribù di Biniamin).

I figli di Yossef non sono pronti ad accettare la sovranità di Yehudà.

La rottura esiste fino ad oggi. Un secolo prima della distruzione del Primo Tempio il re Assiro conquistò il regno di Israel del Nord ed esiliò le Dieci Tribù in luoghi in cui andarono poi persi. La storia ebraica da quel momento è la storia delle due tribù rimanenti ed una parte importante della tribù di Levi, nonché un piccolo numero di ebrei di altre tribù che abitavano nel territorio del Regno di Yehudà.

I profeti assicurano che ci sarà un giorno in cui le due metà del popolo saranno riunite per sempre. L’era messianica confermerà però la sovranità di Yehudà.

Gli insegnamenti chassidici spiegano che il conflitto Yossef-Yehudà rappresenta una scissione che si può esprimere in ogni aspetto della vita. E’ il conflitto tra crescita e appagamento personale da una parte e subordinazione e dedizione dall’altra.

Esistono molte motivazioni dietro le azioni umane ma cadono tutte sotto due categorie generali:

a) Per proprio beneficio (per piacere/godimento/realizzazione del proprio potenziale/raggiungere la trascendenza).

b) Per servire qualcosa di più grande di noi (la società/la storia/D-o).

In realtà tutte e due le categorie sono sempre presenti nella nostra vita. Da un lato abbiamo una forte volontà di migliorarci e di trarre il maggior beneficio da qualsiasi situazione ma ci accorgiamo anche che non è un semplice egoismo ma qualcosa di reale e di profondo nelle nostre anime.

Dall’altra parte siamo ugualmente consci di fare parte di qualcosa che è molto più grande di noi e che la nostra esistenza può essere valida solamente nel servire una realtà che è aldilà del nostro essere limitato e soggettivo.

Entrambe le posizioni hanno le proprie fonti nella parole della Torà e dei Saggi. La Torà (p.e. in Deuteronomio 11, Levitico 12) sottolinea che il progetto Divino della vita è per il bene dell’uomo, materialmente e spiritualmente. “Le mizvòt sono state comandate per elevare l’umanità” dice il Midrash. Il Talmud dichiara adirittura che ogni persona debba dire “Il mondo è stato creato per me”.

Dall’altra parte gli elogi più elevati fatti nei confronti di Moshe si esprimono nel chiamarlo “Un servo del Sig-re” (Deuteronomio 34:5). I nostri saggi ci esortano all’altruismo nella vita, in maniera che tutte le nostre opere fossimo riconoscenti di “essere stati creati solo per servire il Creatore” (Kiddushin 82b).

Questa dualità è indicata dai nostri saggi anche in termini di “studio” e di “azione” (o “Torà” e “mizvòt”), e dal dibattito su quale fosse più importante, lo studio o l’atto? Lo studio comporta lo sviluppo e il perfezionamento dell’io mentre l’atto rappresenta il servizio dell’io nei confronti della esigenza del momento. Perché l’uomo fu posto sulla terra? Per perfezionare sé stesso o per anullare il proprio ego nel servizio del Creatore?

Rachel, bella di aspetto, rappresenta la volontà di realizzazione e perfezionamente della persona, mentre Leah, umile e sottomessa, rappresenta la nostra capacità di servire e di auto-anullamento.

Le qualità di Rachel sono fortemente sottolineate nella persona bella e carismatica di Yossef che riesce a trasformare ogni circostanza in un successo personale.

Yehudà, invece, rappresenta l’umiltà e la motivazione di colui che vede la vita più come un dovere che come un senso di realizzazione. Fa sì che si eviti l’uccisione di Yossef. E’ pronto ad ammettere le sue colpe. Si offre come garante per la sicurezza del fratello Biniamin. E’ riconosciuto in quanto leader dei fratelli, in una leadership ancorata non tanto dalla confidenza e l’ambizione quanto dalla responsabilità e l’impegno.

Il concetto è indicato anche nei loro nomi: Yossef vuol dire “aggiungere” e rappresenta la crescita e la realizzazione delle mete, mentre Yehudà vuol dire “ammettere” e quasi “sottomettere”.

Queste due forze ed energie, all’interno di ogni persona, lottano per trovarsi a capo della persona. In ogni nostro pensiero o sentimento, in ogni scelta, azione e direzione che intraprendiamo nel corso della vita.

Esiste un punto in cui le due forze possono unirsi. Questo è il punto in cui si riconosce che il perfezionamento dell’io può diventare un progetto non egoistico ma altruistico. In che maniera? Se lo si fa perché è la volontà del Creatore.
In quel momento si apprezza che “Lo studio è più importante perché porta all’atto”.

Un “io” perfezionato, è un “io” che è meglio preparato a servire il proprio compito. In realtà, questo è proprio lo scopo della creazione.

Il maestro chassidico rabbì Zushe di Anipoli disse: “Se mi dicessero di cambiare posto con il nostro avo Avraham, lo rifiuterei. Cosa guadagnerebbe D-o da questo? Avrebbe comunque un Zushe ed un Avraham!”

Una persona che può conciliare tra queste due energie nel proprio profondo, è una persona che ha fatto pace tra Yehudà e Yossef. Il sovrano assoluto è Yehudà – la sottomissione alla volontà del Sign-re. Ma questo non vuol dire sopprimere l’aspetto di Yossef. Al contrario, le proprie passioni ed ambizioni sono integrate nel proprio “io” ebraico voluto e richiesto dalla Torà.

Basato sulle opere del Rebbe di Lubavitch

L’Educazione Come Garanzia

2 dicembre, 2011
La Parashà racconta di come un unico ebreo andò ad un paese per lui nuovo e strano, ove arrivò con le tasche vuote. Nonostante avesse lasciato la propria casa con tutto l’occorrente, un suo nipote, Elifàz figlio di ‘Essàv, fu mandato a ucciderlo. Ya’acòv riuscì a convincerlo di accontentarsi dei suoi beni che Elifàz prese lasciandò Ya’acòv impoverito.
Arrivato a Charàn, Ya’acòv non trova nessuna persona di fiducia (a parte le proprie mogli, chiaramente). Suo zio, Lavàn, lo ha ingannato. Lui comunque non perde la sua fede in D-o. Per molti anni lavora duramente e alla fine viene ricompensato, anche con la ricchezza, ma più importantemente con figli che seguono la via del loro padre, del nonno Yitzchàk e del bisnonno Avrahàm.
Da questa storia emerge un fatto sorprendente. Avrahàm ebbe un figlio che lo seguì ma anche un’altro che non lo fece, Yishmaèl. Anche Yitzchàk ebbe un figlio che diventò un malvagio, ‘Essàv. Sia Avrahàm che Yitzchàk allevarono i propri figli in casa nella Terra Santa ma ciò non fu garanzia del loro benessere spirituale.
I figli di Ya’acòv, dall’altro canto, nacquero in esilio, in quella che poi sarà chiamata la diaspora. Egli lavorava molto, anche di notte, e al tempo stesso dovette stare attento all’educazione dei figli e delle figlie in un ambiente estraneo che non conosceva il modo di vita di Avrahàm e Yitzchàk.
Nonostante tutto ciò, è proprio lui che meritò una progenia di giusti.
Questa storia di Ya’acòv si riflette anche nella storia dei suoi nipoti in tutte le generazioni. Le promesse di popoli e persone a noi ostili finiscono nel nulla. L’unico appoggio vero che abbiamo è quello di D-o, con il quale comunichiamo attraverso la Torà e le mitzvòt.
Ciò ci insegna che non è solamente l’ambiente o il luogo nel quale ci si trova che garantisce la continuità, ma è l’autentica educazione ebraica che ce le può garantire anche quando l’ambiente non è il massimo.
Di rav Shalom Hazan
Basato sulle opere del Rebbe zz”l
Scintilla
Il versetto dice degli ebrei nel deserto che camminarono per tre giorni “e non trovarono acqua” (Shemòt 15, 22). Dissero i saggi che l’acqua è anche un allusione alla Torà. I profeti hanno quindi istituito che si legga la Torà di Shabbàt, di lunedì e di giovedì in modo che non trascorrino tre giorni senza sentire la Torà…
Talmùd, Baba Kama 82a

Il Viaggio Infinito

4 novembre, 2011

Nella nostra Parashà D-o si rivela ad Abramo per la prima volta e gli ordina “Va’ via dalla tua terra, dal luogo in cui sei nato e della casa di tuo padre, alla terra che ti mostrerò” – (Bereshìt 12, 1).

Conoscendo il rapporto speciale che esisteva tra il nostro primo padre e il Sig-re, forse rimaniamo sorpresi quando leggiamo un po’ più avanti che “Avràm aveva settantacinque anni quando uscì da Charàn”.

Perché la Torà non ci racconta la storia di Abramo fino a questo punto?

La parola Torà deriva da “hora’à” che significa istruzione.

La Torà non è, quindi, un libro di storia (nonostante possa svolgere anche questo ruolo) ma un “manuale d’istruzioni” per il popolo ebraico.

È proprio per questa ragione che molti eventi storici non sono menzionati nella Torà che include solo quello che rimane – eternamente – istruttivo per noi.

Le tappe della vita di Abramo fino a questo punto, il suo cammino e le prove che ha superato, non fanno parte  della realtà della vita per i suoi discendenti.

Mentre il comandamento (“Va’ via…”) nella nostra Parashà è qualcosa che non solo può trovare riscontro nella vita di ognuno ma infatti è un viaggio che ognuno intraprende forse senza neanche riconoscerlo.

Di che cosa si tratta?

All’anima che scende in questo mondo per dare vita a un corpo viene ditto “Va’ via…”, lascia il mondo elevato, spirituale, santo, e vai verso quel mondo inferiore.

Questa è una dura prova per l’anima e infatti la Mishnà dice che il uomo vive (ossia l’anima si trova nel corpo) contro la sua volontà (Avòt 4, 29).

Anche dopo questa discesa, quando ormai si tratta di un essere umano vivente, viene detto di nuovo “Va’ via”.

Va’ via dai tuoi abitudini negativi, da un’educazione scorretta e da un’atteggiamento non molto positivo, vai verso la Casa di Studio e impara a cambiare tutto ciò per il bene.

Ma anche a quel punto, il richiamo “Va’ via” c’è ancora. Perchè una cosa buona può sempre essere meglio ancora.

Come tutto nella Torà, anche questo richiamo è eterno, ovunque e ad ognuno.

Di Rav Shalom Hazan
Basato sulle opere del Rebbe di Lubavitch, זי”ע

Parole Galleggianti

28 ottobre, 2011

Quande le acque del diluvio divennero molte e riempirono la terra, alzarono la tevà, l’arca, che iniziò a galleggiare sulla superficie delle acque.

Che lezione attuale è nascosto in questo? Il Baal Shem Tov fa notare che la parola tevà (arca) vuol dire anche “parola” in ebraico.

Sono le parole delle nostre tefillòt e della Torà che studiamo, che sono inalzate aldisopra delle acque. Quali acque? Sono le molte acque dei pensieri, le distrazioni, le esperienze umane normali e banali che comunque fanno sì che l’aspetto spirituale del nostro essere, l’anima Divina, venga oscurato e nascosto. Potremmo quindi vedere in cattiva luce queste “acque”.

No, dice il Baal Shem Tov, proprio queste acque sono quelle che fanno salire in alto e illuminare le poche parole di Torà e Tefillà che riusciamo a pronunciare. Proprio perché vengono dette e fatte con sforzo e sacrificio, trascendono le acque, e fanno splendere la neshamà (l’anima).

Proprio come c’è scritto nella Parashà della settimana, sono le acque che fanno salire la tevà – le parole.

di Rav Shalom Hazan